Immigrato-spacciatore, un binomio apparente

Se le impressioni che già erano nell’aria, che già circolavano nell’opinione pubblica, avessero mai avuto bisogno di una conferma, ebbene eccola: nel 2005, a Padova, il 64,7% degli arresti per droga (produzione, traffico, spaccio) ha riguardato stranieri; in riferimento allo stesso anno, nella vicina Verona, la medesima percentuale è del 53,3%, dato sostanzialmente analogo a quello registrato negli hinterland milanese e torinese. Insomma: la criminalità di strada, quella più minuta e insidiosa, che più direttamente incide sulla tenuta dell’ordine pubblico e sulla qualità della vita dei cittadini, nel nord del paese ha il volto di un immigrato; che, possiamo presumere, è un irregolare. Lo scenario nazionale non è altresì consolante: «Tra il 2001 e il 2003, gli stranieri hanno battuto il record nei borseggi (83%), nei furti in appartamento (61%) e nei furti d’auto (34%)» (così il Corriere della Sera). Il quadro, in tutta la sua desolazione, è quello emerso da una recente ricerca di Marzio Barbagli, del dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna. L’indagine, che inquadra l’andamento dei fenomeni criminali in rapporto all’immigrazione, in un arco temporale che va dal 1988 all’anno in corso, presenta numeri e stime apparentemente inesorabili. La criminalità si alimenta di manodopera straniera; gli immigrati mostrano una propensione a delinquere ben maggiore di quella degli italiani; la risposta dell’opinione pubblica è allarmante. Unica eccezione, in questo scenario, alla penetrazione degli immigrati nei meccanismi della narcocriminalità, appare quella di Napoli: dove la camorra controlla il mercato di stupefacenti arruolando minori italiani e dove solo il 4,5% degli arresti per reati connessi al traffico di stupefacenti ha interessato stranieri. Le sole tregue all’andamento dei fenomeni richiamati coincidono con le sanatorie e le regolarizzazioni promosse nel ’90, nel ’95, nel ’98 e nel 2002: la ricerca suggerisce, a tal proposito, che il binomio immigrazione-criminalità venga indebolito, in queste occasioni, dal timore di molti migranti di perdere il permesso di soggiorno acquisito e dalla macchina dei controlli e delle espulsioni che si fa più efficiente. Le cifre presentate da Barbagli, tuttavia, meritano di essere interpretate e precisate con alcune considerazioni. Meglio: meritano di essere chiarite alla luce di alcune domande. Cos’è che spinge tanti immigrati a delinquere? Quali sono i fattori che giustificano quella che la ricerca presenta come una vera correlazione, tra la condizione di immigrato e quella di spacciatore-trafficante e, più in generale, delinquente? ndrea Vale la pena partire da un elemento che la ricerca stessa suggerisce: ovvero da come il “fattore integrazione” sembri poter calmierare la propensione a delinquere della popolazione ale straniera. Barbagli ci ricorda che le sanatorie coincidono con momenti di flessione nel numero di reati fatti registrare dagli immigrati. Da una ricerca che condussi con Luigi Manconi, un anno addietro, emerse, a tal riguardo, un dato decisamente significativo: nel 2004, su un totale di 611.283 persone arrestate e denunciate in Italia, gli stranieri con permesso di soggiorno sono stati 96. Non mancano uno o due o tre zeri, non c’è nessun errore. È proprio così: 96 (la fonte dei dati è il ministero degli Interni). Appena 96 su 611.283 arrestati e denunciati nel corso di un anno; appena 96 su oltre 2 milioni e mezzo di stranieri regolarmente presenti sul territorio nazionale. Un tasso di criminalità non solo di gran lunga inferiore a quello registrato tra gli immigrati irregolari, ma anche eccezionalmente più basso di quello che individua la propensione a delinquere degli italiani stessi. Per contro, in quello stesso anno, in alcune regioni del paese gli immigrati irregolari costituivano il 50% delle persone arrestate o denunciate: erano, complessivamente, 237.229. A ben vedere, tuttavia, quel dato (96) è meno sorprendente di quanto si creda. Tutte le ricerche condotte nei paesi oggetto di immigrazione dicono che la prima generazione di stranieri regolari (la considerazione vale anche per gli italiani in Germania e in altre nazioni europee) tende all’integrazione – se ce ne sono le condizioni giuridiche e sociali – e presenta, generalmente, un ridotto “tasso criminale”. E, tuttavia, non è quella cifra in sé ad esigere ulteriori spiegazioni; quanto la sperequazione abissale tra la sua esiguità e quel “237.229”. Avanzo una ipotesi, modesta e facile: la promozione di condizioni giuridiche e sociali favorevoli all’integrazione si rivela un importante (ma le cifre in questione, ancor più, suggerirebbero un “formidabile”) incentivo alla legalità. E dunque, se così fosse, il nodo che le percentuali di Barbagli e le nostre suggeriscono è tutto politico; e passa per una scelta strategica, che non è necessariamente “binaria”, che non si traduce in un “o questo o quello”: tra una gestione del fenomeno criminale connesso all’immigrazione indirizzata (prevalentemente) verso prassi repressive o, altrimenti, mirata al potenziamento delle pratiche d’inclusione e integrazione. Inutile suggerire che la sperequazione di cui dicevamo, inerente il tasso di illegalità tra irregolari e immigrati con permesso di soggiorno, ci fa propendere per questa seconda ipotesi. D’altronde esiste un’ulteriore considerazione da fare, proprio in merito ai dati della ricerca in oggetto. Quelle percentuali non segnalano semplicemente un fenomeno criminale; esse descrivono, in primis, proprio le dimensioni del fenomeno repressivo. Parlano di arresti. A partire da quei dati possiamo ipotizzare che esista una proporzione effettiva tra il numero degli immigrati arrestati per reati di droga e il numero di stranieri coinvolti nel mercato degli stupefacenti (ovvero: possiamo ipotizzare che a Padova, ad esempio, si registra quel 64,7 di arresti tra gli stranieri perché, effettivamente, il 64,7% del narcotraffico è gestito da loro); oppure possiamo ricordarci come la popolazione immigrata sia sottoposta a controlli e fermi di polizia molto più di quanto lo sia quella italiana. Possiamo ricordarci che, per dirla in soldoni, è più rischioso spacciare avendo la pelle nera (o sembrando slavi, nordafricani, asiatici) che avendola bianca. Allora, forse, quella proporzione cui accennavamo non può essere data per scontata; e, più probabilmente, non sussiste e non può essere assunta, se non contemplando ampi – ampissimi -margini di imprecisione. Tutto ciò vuol dire che non esiste un problema “sicurezza” legato all’immigrazione? Evidentemente no. Pure, lo stesso schema di ragionamento appena esposto per interpretare le stime presentate da Barbagli può essere valido per inquadrare il fenomeno della delinquenza tra gli immigrati nel suo complesso. Se analizziamo, ad esempio, le statistiche relative alla reclusione scopriamo che gli stranieri, nelle carceri italiane, costituiscono circa il 30% della popolazione detenuta. Ma una parte assai consistente di quella percentuale è a sua volta costituita da persone prive del permesso di soggiorno (rei di un mero illecito amministrativo e detenuti solo in virtù di una legge criminogena quale la Bossi-Fini sull’immigrazione). Per il resto, quel dato si spiega anche alla luce di alcuni fattori: gli stranieri vanno in carcere e ci rimangono più a lungo degli italiani non solo perché – percentualmente – “delinquono con maggiore frequenza” (anche per evidenti ragioni economiche, sociali e ambientali): ma, soprattutto, perché scontano difficoltà linguistiche e di comunicazione, scarsa conoscenza del sistema giuridico e una minor tutela delle garanzie di difesa. Basti pensare al ricorso alla custodia cautelare: tra gli stranieri il 60% è composto da detenuti in attesa di giudizio, mentre tra gli italiani il dato scende al di sotto del 40%. Analogamente, la percentuale di stranieri sul totale delle popolazione detenuta è molto più elevata di quella degli stranieri che subiscono una condanna. Infine, a parità di imputazione o di condanna, la permanenza in carcere degli stranieri è mediamente assai più lunga di quella degli italiani, sia in fase di custodia cautelare che dopo la sentenza.