Il Italia vige un doppio mercato del lavoro, funzionale all’accumulazione capitalistica
Dai lager dei CPT al razzismo da stadio, dalle squadracce in attività sanguinaria di Forza Nuova agli “editti ” del MUP ( il Movimento Padano Universitario che definisce il flusso migratorio come “ lo strumento di una regia occulta volta a destabilizzare le etnie autoctone ” ) la malapianta del razzismo ricresce ovunque. Come un tempo, la destra cerca nella demonizzazione dell’ “altro” la propria base di consenso. Contro tale orrore di ritorno è’ tempo di avviare una lotta serrata. Una lotta che punti, innanzitutto, a scardinare i pregiudizi di massa e costruire un senso comune razionale e democratico, volto alla tolleranza e al radicamento del valore della convivenza. Perché questa lotta parta occorre “popolarizzare” i motivi reali che spingono milioni di persone del mondo povero verso le aree ricche dell’occidente capitalistico. Su tre punti essenziali dobbiamo fissare la nostra attenzione: sullo scambio diseguale attualmente vigente tra imperialismo e terzo mondo; sul sistema rigido di doppio mercato del lavoro nei paesi capitalistici; sull’invenzione del razzismo quale categoria reazionaria diretta a legittimare lo stesso doppio mercato del lavoro.
Lo scambio diseguale
Gli scambi economici tra il nord e il sud del mondo, tra i paesi ricchi e i paesi poveri, sono caratterizzati tuttora, come nel periodo del colonialismo, dal trasferimento ingente di ricchezza dal terzo mondo all’occidente e riproducono fedelmente, su scala internazionale, il rapporto di sfruttamento tra capitale e lavoro in atto in ogni regime capitalistico. Ma mentre nell’ottocento, e in buona parte del secolo XX, lo sfruttamento del nord sul sud del mondo si basava sulla rapina “pura” delle materie prime, ora il trasferimento di ricchezza avviene in buona parte ( in buona parte, poiché è ancora consistente la quota di ricchezza che l’imperialismo, manu militari e attraverso la speculazione finanziaria, rapina direttamente) attraverso lo scambio diseguale di merci. Fu nel periodo colonialista che si dettero le condizioni costitutive del moderno rapporto imperialista: da una parte, nei paesi colonizzatori, si accumulavano le ricchezze e le condizioni sociali che avrebbero gettato le basi dell’odierna, immensa, capacità produttiva capitalista; dall’altra – nei paesi colonizzati – si passava dal sistema dell’autoconsumo all’accettazione e all’entrata nel mercato internazionale. La possibilità per i paesi del terzo mondo, appena liberatisi dal colonialismo, di competere con i paesi imperialisti sul terreno del “libero mercato”, fu, come tuttora è, una possibilità del tutto teorica. In effetti, quella “possibilità” era il nuovo e maligno apparato di sfruttamento e spoliazione che i paesi capitalistici avevano approntato al posto dell’ormai impresentabile colonialismo, come il “libero mercato” altro non era, nei fatti, che il nuovo processo di valorizzazione del capitale. Oggi, dunque, tra il nord e il sud del mondo, si scambiano merci. Ma le merci, come sappiamo, altro non sono che valori, reificazioni dell’attività lavorativa necessaria a produrle. Il loro valore è determinato, essenzialmente, dalla capacità produttiva sociale. Ma la capacità produttiva, la concentrazione tecnologica, il fondamentale sistema macchinico mondiale appartengono in esclusiva ai paesi imperialisti, anche in virtù del secolare saccheggio al sud del mondo. Le merci prodotte dall’apparato capitalistico, in quanto tecnologicamente sofisticate, hanno un grande valore di scambio, e in quanto provenienti da un avanzatissimo sistema produttivo, contengono in sé un minimo di dispendio di forza lavoro. Le merci provenienti dal terzo mondo sono precisamente il contrario: uscendo da un bassissimo apparato produttivo sono tecnologicamente povere, quasi prive di valore di scambio, pur contenendo in sé un immenso dispendio di forza-lavoro.
Lo scambio di merci tra i due sistemi produttivi si riduce così ad un furto legalizzato che il sistema produttivo più forte attua ai danni del sistema produttivo più debole: si scambiano alla pari un’ora di lavoro con mille ore di lavoro, una motocicletta con cinque quintali di caffè, un televisore con un silos di grano. Il vecchio rapporto di rapina delle materie prime ( che pur sussiste nella forma violenta originaria) viene ripristinato con in più, per l’uomo bianco, il guadagno della salvezza dell’anima, attraverso, l’alibi del “libero mercato”.
Il doppio mercato capitalistico del lavoro
Il misero valore delle proprie merci e la miseria di massa dei propri paesi, essenzialmente provocata dal saccheggio generale capitalista, spinge ogni uomo e ogni donna del terzo mondo a considerare la propria forza-lavoro l’unica merce degna di essere valutata sul mercato e poiché il mercato migliore e più aperto appare quello dell’occidente, possiamo facilmente comprendere il motivo per cui milioni di persone del sud del mondo tentino la fortuna nei nostri paesi. E’ questo il punto, questa la motivazione reale che sta a monte dell’esodo epico dei “neri” e dei diseredati verso il mondo “bianco”. Ma quando i senegalesi, gli albanesi, i bangladesci giungono in Italia, non trovano per la loro merce ( la loro stessa forza-lavoro), il mercato che sognavano: essi trovano un rigido sistema binario di mercato capitalistico del lavoro, il doppio mercato. Nel primo mercato vende infatti la propria forza-lavoro la classe operaia italiana; nel secondo ( privo di contratti di lavoro, contributi, orari, sindacati, assistenza sanitaria ) possono vendere la loro forza-lavoro gli extracomunitari. E’ questo il doppio mercato, un sistema particolarmente funzionale allo sviluppo capitalistico, all’accumulazione, e per almeno due buone ragioni: da una parte il mercato inferiore, quello dove approdano gli immigrati, diviene la sede di costituzione sociale del nuovo esercito industriale di riserva, esercito che permette ai capitalisti di controllare efficacemente sia il proletariato “nero” che ricattare con lo spettro del licenziamento il proletariato “bianco”. Inoltre, il diverso peso dello sfruttamento, su due diverse aree proletarie, permette al capitale la diversificazione del saggio di profitto, condizione primaria per garantire la continuità della concorrenza e la stessa lotta intercapitalista.
Da quanto detto possiamo trarre una conseguenza: la costituzione di un esercito industriale di riserva “nero”, slavo, asiatico, è funzionale ai rapporti capitalistici di produzione e l’attacco contro gli immigrati portato dai settori più beceri della piccola borghesia reazionaria italiana e dalla destra neofascista, populista e leghista giunge ad un obiettivo che il grande capitale silenziosamente coglie: quello di ratificare “l’inferiorità sociale” dell’immigrato, per collocarlo stabilmente nel mercato inferiore del lavoro.
Il razzismo
Così si comprende bene come il capitale abbia bisogno di mettere a valore l’odio razziale; ma, per non sporcarsi le mani e come si fa con le merci dense di plus valore ma “ intoccabili e innominabili ” ( come la droga pesante per la mafia) fa “ circolare ” socialmente la merce odio-razziale attraverso “spacciatori ” assunti nei “bronx” della sub – politica reazionaria ( “spacciatori” ideologici leghisti , neofascisti, berlusconiani, aventi la stessa funzione politica, per il capitale, delle squadracce del ’21). Essere a fianco degli immigrati, sostenere le loro lotte, significa dunque, per le stesse avanguardie italiane, per lo stesso movimento operaio, andare al di là di una semplice solidarietà di tipo umanistico, andare persino al di là della difesa della democrazia borghese e dei suoi diritti formali: significa allargare l’area delle contraddizioni capitalistiche, irrobustire l’antagonismo proletario attraverso una nuova e significativa alleanza, significa forzare ulteriormente le compatibilità capitalistiche in senso anticapitalista. E per dare concretezza ad un piano di questo tipo occorre che l’esperienza del movimento operaio e sindacale italiano si metta al servizio del nuovo proletariato “nero” ( slavo, asiatico, latinoamericano..) e delinei una serie di obiettivi e di lotte che rispondano alle esigenze vitali degli immigrati: dall’equiparazione salariale ai diritti di cittadinanza, dal libero accesso ai servizi sociali ( sanità, scuola, case popolari..) alla lotta contro la chiusura delle frontiere, sino al diritto di voto. Sino alla cancellazione della legge Bossi-Fini, vero e proprio metro di misura del tasso di “alternatività” politica e sociale delle eventuali politiche governative del centro sinistra.
Sindacato e Partito comunista
E’ del tutto evidente che un approccio materialista alla questione dell’immigrazione, nell’obiettivo di costruzione di un nuovo proletariato “ bianco e nero” con coscienza di classe, richiede un nuovo ruolo del sindacato ed un nuovo ruolo del Partito comunista. Faccio un esempio: ad Ancona, da dove scrivo, vi è un Cantiere Navale storico ove lavorano circa 1.500 operai, di cui circa la metà “bianchi” ( dipendenti della Fincantieri) e metà immigrati ( gli ultrasfruttati delle ditte d’appalto). Questi ultimi, vero e proprio esercito industriale di riserva, sottopagati e privi di diritti, sono vissuti come antagonisti dalla classe operaia tradizionale e “bianca” e il contrasto tra le due aree proletarie è funzionale al profitto e al mantenimento dell’ordine aziendale. Obiettivo del sindacato dovrebbe essere palesemente quello di unificare la classe, ma è chiaro che ancora non ne è capace e addirittura, con ogni probabilità, non si è posto il problema strategico.
Ma il fenomeno dell’immigrazione ( come quello del proletariato e del sottoproletariato metropolitano, come quello della nuova forma precarizzata del lavoro) pone problemi enormi e inediti, non riferibili alla tradizione, anche al Partito comunista, problemi che non possiamo qui affrontare ma che evocano la questione della nuova forma del partito comunista , del tipo nuovo di organizzazione e radicamento ( come legarsi alla classe “nera” ? Come unire il proletariato bianco e nero ? Come stare concretamente nei conflitti delle periferie urbane ? Solo con il Circolo “stanziale” o dentro la fulmineità dell’azione/contraddizione metropolitana ? ). Problemi che si aggiungono a quello tradizionale dell’assenza dell’organizzazione comunista nei luoghi della produzione e pongono una vera e propria questione : la forma moderna del partito comunista di massa.