Sparano sugli italiani. Un’ altra volta. La terza in tre settimane. Il giorno dopo la liberazione di Mastrogiacomo, sette prima del voto in Senato sul rifinanziamento alla missione militare in Afghanistan, si riaffacciano puntuali i cecchini delle strade di Farah, la provincia vicina all’ Helmand dove stava prigioniero il giornalista italiano e dov’ è in corso l’ offensiva «Achille» della Nato: un incursore del Col Moschin è stato colpito al braccio sinistro, ieri pomeriggio. Un proiettile di striscio, sembra. Una ferita leggera. «Episodio isolato, lesione minima», liquidano dal comando italiano di Herat: «La sue condizioni non destano preoccupazioni, tanto che non è stata necessaria l’ evacuazione medica d’ urgenza».
L’ IMBOSCATA – L’ episodio è di quelli che preoccupano, però. Il braccio del sottufficiale pare sia stato trapassato, mentre la pattuglia italiana del mitizzato «Nono» (reparto d’ élite della Folgore) è caduta in una vera imboscata, durante «una normale attività di ricognizione e controllo», costretta a una fuga veloce alla base di Herat: prima si sono sentiti colpi di mortaio, poi sono partite raffiche di Ak-47. Ancora lì, a ovest. Nel settore italiano che ingloba la caldissima provincia di Farah, oltre che Badghis e Ghor. Dove le attività dei nostri mille soldati di Camp Arena sono state rapidamente riorientate per questo 2007 di fuoco: meno scuole da costruire, più sicurezza da garantire.
LA GUERRIGLIA A HERAT – Una svolta obbligata: «Purtroppo devo dire che la guerriglia sta arrivando anche a Herat – riconosce adesso il ministro degli Esteri, Massimo D’ Alema – e non credo che le truppe italiane siano in una buona situazione. Stiamo andando ad affrontare momenti difficili. La mia opinione è che non possiamo inviare più truppe e non possiamo cambiare il loro mandato». D’ Alema sa che l’ abbiamo scampata un’ altra volta, si ricorda d’ un analogo attacco tre settimane fa agli alpini di Camp Invicta, a Kabul: «Molti segnali fanno pensare, compreso quello che è accaduto, che sia a Kabul che a Herat ci sia una crescente attività militare da parte dei talebani. Questo naturalmente ci preoccupa e significa che non è vero che gli italiani sono lì, come viene rappresentato da alcuni, in una sorta di vacanza».
L’ ESCALATION – Non è una vacanza. È da gennaio che a Farah si consuma un attentato la settimana, contro le truppe Nato. In alcuni casi, vendette trasversali: sotto Natale, una bomba ha polverizzato il capo della polizia doganale afghana, che si occupa dei controlli sull’ oppio, mentre andava a trovare i finanzieri italiani che addestrano i futuri doganieri. Il 12 marzo, una bomba telecomandata ha fatto saltare in aria nove agenti che scortavano il capo della polizia di Farah. Un mese fa, la morte della soldatessa spagnola che accompagnava alcuni mezzi italiani ed è saltata su una mina. Gli ultimi due attentati risalgono al 15 marzo, nel distretto di Bakwa, la cittadina conquistata dai talebani e in un paio di giorni ripresa dalla Nato: un suicida s’ era avvicinato a un convoglio delle forze Usa e s’ era fatto esplodere, ferendo un soldato; un kamikaze in moto s’ era fatto saltare al passaggio di militari afghani.
L’ OPERAZIONE NATO – La pattuglia di ieri, «in una normale attività di ricognizione e di controllo», stava facendo proprio quello che qualcuno (gli spagnoli) considera un vero supporto all’ attacco Nato nell’ Helmand, ma che il governo italiano sminuisce: sono solo «operazioni di elevata vigilanza delle vie di comunicazione e di accesso, affinché non ci sia il passaggio di elementi ostili dalla zona sud in quella dei territori a noi assegnata». In realtà, l’ autunno scorso, alcune «missioni ombra» d’ assaltatori italiani fecero sorgere il dubbio. In particolare, un’ altra imboscata in cui caddero gli uomini dei corpi speciali Comsubin. Parà, marò, incursori: è difficile credere che questi soldati non si preparino alla guerra guerrigliata, in Afghanistan.