Ilva: i veleni di Genova

Ieri gli operai dell’Ilva di Genova si sono scontrati con la polizia, che li ha picchiati: sono giustamente furiosi perché saranno licenziati dopo il sequestro dello stabilimento da parte della magistratura. Lavorano in una fabbrica terribile, che uccide il territorio e i suoi abitanti, mette a repentaglio le loro stesse vite. Il prezzo per un lavoro sottopagato e rischioso ha il sapore della morte. A darglielo è il padrone dell’acciaio italiano, Emilio Riva, un uomo che starebbe benissimo in un racconto di Dickens sulle ferriere inglesi dell’800; con, in più, la capacità di mettere gli uni contro gli altri, gli operai contro gli abitanti di Cornigliano, i lavoratori contro le persone preoccupate per l’ambiente. A completare il quadro è l’assenza della politica, il lavarsene le mani delle istituzioni, il prevalere della logica che “è il mercato a decidere”. La stessa logica che ha ridotto l’industria italiana a far conto sulle produzioni più povere, che spesso sono anche quelle più inquinanti. La storia recente dell’Ilva è tutta dentro questo quadro.
Presi singolarmente, uno per uno, gli operai dell’Ilva – quasi tutti giovani al primo impiego “stabile” – hanno le loro ragioni. Quelle di un reddito certo su cui contare per vivere. Ma di vivere, appunto, si tratta. E, allora, la dimensione collettiva – di classe, se ci consentite la bestemmia – dovrebbe arrivare a dire che quell’impianto, per com’è, non può più continuare a esistere, che la drammatizzazione di cui quegli operai sono vittime fa comodo solo a Riva, che le risorse per la “riconversione” dovrebbero essere utilizzate per un altro tipo di occupazione, proprio perché non si può lavorare a tutti i costi. Che, insomma, oggi più che in passato, sarebbe possibile, oltre che giusto, vivere di lavori puliti e decenti. E’ una logica che solo quelli che subiscono il ricatto occupazionale possono affermare, nessun altro lo farà per conto loro.
Questo, in fondo, era lo spirito che fece nascere un secolo orsono le camere del lavoro e i sindacati di categoria: unirsi per migliorare le condizioni di lavoro e di vita, convinti che quel miglioramento servisse a tutta la società e che il nemico era quello che ti dava quattro soldi per un lavoro schifoso, che i tuoi amici erano tutti quelli che attorno a te subivano le conseguenze di quello stato di cose. L’industrialismo, la pretesa che una fabbrica vada tenuta in vita a tutti i costi, è soltanto una caricatura del movimento operaio che riduce a oggetti le persone e nega i loro diritti più elementari: alla fine sei sempre nelle mani del padrone, perché il tuo grado di libertà dipende dalla tua capacità di autonomia. Come dovrebbe anche insegnare la composizione del fronte imprenditoriale che sostiene Bush nel suo “addio a Kyoto”: siderurgici, petrolieri, costruttori d’automobili, quanto di più vecchio e pericoloso possa offrirci il panorama industriale.
Tra un mese, proprio a Genova, si terrà il vertice dei potenti della terra. Nella città ligure, che la grande industria ha prima sfruttato e poi abbandonato, arriveranno anche migliaia di persone che chiedono “un altro mondo”. Tra essi anche i “compagni di lavoro” degli operai dell’Ilva, uomini e donne che appartengono alla loro stessa categoria, al loro stesso sindacato. E’ un’occasione per trovare una “ragione comune” contro chi sulle “ragioni diverse” costruisce il proprio dominio. Una ragione generale che, per l’Ilva, suona con le note di una vecchia canzone: “si lavora per vivere, non per morire”