La motivazione fondamentale che ha indotto i firmatari a proporre questo emendamento risiede nella semplice considerazione di un fatto, di per sé dirimente: quella in corso in Afghanistan da poco meno di cinque anni è una guerra, una guerra di aggressione e di occupazione.
Questo dato di fatto non è smentito dalla copertura dell’Onu, dal momento che, passando sotto il comando della Nato nell’agosto del 2003, la missione Isaf si è via via sovrapposta e confusa con la missione Enduring Freedom.
Quella in corso in Afghanistan è dunque una guerra offensiva sempre più devastante (nel 2002 le vittime furono 1.500; nel 2005 2.000; nei primi sei mesi di quest’anno, oltre 2.500). Ma la Costituzione della Repubblica non permette né al Parlamento né al governo né ad altre autorità dello Stato di decidere la partecipazione del nostro Paese a una guerra di questo genere.
Non bastasse, la realtà dell’Afghanistan, dopo quasi cinque anni dall’attacco americano, non autorizza i giudizi favorevoli e ottimistici formulati da chi sostiene la prosecuzione della guerra e della nostra partecipazione.
La sicurezza, fuori da Kabul, è inesistente. La delinquenza comune in costante aumento, e così la tossidipendenza, la prostituzione, l’Aids. La popolazione civile – esposta alle violenze del conflitto – vive in condizioni disperanti. Mancano strade, acquedotti, scuole, ospedali, elettricità e tutte le infrastrutture di base. Lo stesso Kofi Annan ha denunciato l’“assenza di istituzioni in grado di rispondere ai bisogni basilari della popolazione”.
In tutto il Paese infuria la guerra tra i terroristi, i signori della guerra, i trafficanti di oppio e i talibani, che, non dimentichiamolo (e mi rivolgo in particolare all’on. Gerardo Bianco, del quale ho ascoltato con attenzione ieri l’intervento nella Discussione generale), furono protetti e armati dagli Stati Uniti, tra l’87 e il ’92, contro il regime di Najibullah).
A proposito dell’oppio, l’Afghanistan è stato da ultimo autorevolmente definito un narco-Stato. Oggi l’Afghanistan rifornisce circa l’80% del traffico mondiale di eroina. L’affare dell’oppio coinvolge massicciamente funzionari e membri del governo in carica, e circa un quarto dei 249 deputati del Parlamento di recente eletto: un Parlamento nel quale i signori della guerra e della droga possono invocare lo stupro di una deputata che osa denunciare la corruzione e la violenza dei nuovi governanti.
Quanto alla condizione delle donne – spesso evocata come prova di un processo di democratizzazione in atto – la verità è piuttosto che la loro assoluta sottomissione è stata ri-privatizzata: esse sono state sottratte all’autorità dei mullah e restituite al dominio dei capifamiglia. A quanti è noto che nell’Afghanistan di Karzai si applica la sharia?
Di fronte a questo stato di cose, non credo ce la si possa cavare con il facile argomento che proprio questo quadro imporrebbe la prosecuzione delle missioni. Di questa situazione le missioni militari – cinque anni di una guerra devastante – sono le principali responsabili.
C’è ancora un’altra ragione che raccomanda, a giudizio di chi presenta l’emendamento che sto illustrando, di porre fine a questa guerra: la sua dirompente pericolosità.
Questa guerra non è diversa da quella irachena, per il semplice fatto che è un capitolo di una stessa strategia, come riconoscono tanti imparziali osservatori: un tassello del “nuovo grande gioco americano”, come ha scritto da ultimo (sulla Stampa di domenica scorsa) Barbara Spinelli, che non credo possa essere tacciata di dogmatismi o ossessioni anti-americane.
Questa guerra non è diversa dalla guerra irachena, ma è forse ancor più pericolosa di essa, per la collocazione geografica dell’Afghanistan, per la rilevanza geopolitica dell’area (nel cuore di una regione strategica per il controllo delle risorse energetiche e per il contrasto verso le maggiori potenze euroasiatiche: la Cina, l’India, la stessa Russia). Non è un caso che dopo cinque anni questa guerra si estenda e si radicalizzi. Né che i vertici politici e militari che la propugnano e dirigono dichiarino a chiare lettere che essa durerà ancora molto a lungo.
E del resto i più recenti sviluppi del conflitto dimostrano che qualsiasi previsione sui suoi esiti sarebbe un azzardo. Le ultime notizie sono di ieri, anche se non figurano ancora sui giornali. Da fonti presenti in Afghanistan (l’organizzazione Peacereporter) apprendiamo che ieri ha avuto luogo una forte offensiva talebana nel sud. I talebani sono arrivati sino a 5 chilometri da Lashkargah (sede di un quartier generale delle forze inglesi). In seguito a duri scontri, i talebani hanno costretto le forze internazionali a ritirarsi e hanno conquistato due distretti. La reazione della Nato e delle forze della missione Enduring Freedom, affidata a bombardamenti pesanti, ha colpito insediamenti civili, provocando un numero imprecisato di vittime.
In questo drammatico contesto, la fine della partecipazione italiana alla guerra in Afghanistan non sarebbe soltanto un gesto di coerenza e di rispetto nei confronti della Costituzione repubblicana, ma anche una fondamentale inversione di tendenza della tragica spirale di guerra che proprio in questi giorni conosce in Medio Oriente un’accelerazione foriera – temo – di inquietanti sviluppi.
Mentre il mondo assiste col fiato sospeso all’aggravarsi e al dilagare del conflitto mediorientale, credo che l’annuncio della volontà del nostro Paese di cessare dalla partecipazione a questa guerra sarebbe non già un semplice disimpegno, bensì un’attiva testimonianza di pace e un forte gesto di speranza.