«Illegali gli arresti dei ministri di Hamas»

«Più che arresti, e la conseguente minaccia di processi, quelli compiuti da Israele nei confronti di ministri e parlamentari palestinesi di Hamas si configurano, sul piano tecnico-giuridico, come dei rapimenti». A sostenerlo è Domenico Gallo, tra i più autorevoli studiosi di Diritto internazionale. «Con questa operazione – sottolinea il giurista – Israele smantella con la forza le strutture costituzionali del nascente Stato palestinese».
Israele ha arrestato oltre 60 tra ministri, parlamentari e sindaci di Hamas. Sul piano degli accordi internazionali sottoscritti e del diritto internazionale, come va valutata questa iniziativa?
«È una palese violazione degli Accordi di Oslo-Washington (settembre 1993), perché questa operazione è stata eseguita a Ramallah, e cioè in un’area “A”, vale a dire in una zona riservata al controllo dell’Autorità nazionale palestinese. In questa zona Israele non può eseguire arresti e operazioni di polizia di alcun tipo, per cui più che di arresti parlerei di rapimenti, di prelievi con la forza privi di una base giuridica che li giustifichi o che consenta di inquadrarli in una forma legale. Parlo di rapimenti in senso tecnico-giuridico e non per polemica politica. In realtà siamo di fronte alla mancanza di rispetto per le strutture costituzionali del nascente Stato palestinese. In questo modo si impedisce la nascita di uno Stato palestinese e ciò contrasta con il processo di pace, con la Road Map e con gli obblighi internazionali per Israele: mi riferisco in particolare alle Risoluzioni Onu 242 e 338 che prevedono che alla fine del processo di pace vi debbano essere due popoli e due Stati. Uno Stato non può sopprimere le strutture nascenti di un altro Stato in formazione. Così come i palestinesi non possono arrestare ministri e parlamentari israeliani, lo stesso vale per gli israeliani che non possono trarre in arresto ministri e parlamentari palestinesi perchè devono rispettare questa Autorità politica che rappresenta l’embrione di uno Stato palestinese».
Sul piano politico ma anche su quello giuridico, Israele afferma che non è possibile riconoscere un governo emanazione di un movimento, Hamas, che Gerusalemme considera un’organizzazione terroristica.
«Questo vuol dire che Israele teme, anche su basi fondate, che il governo Hamas non rispetti gli impegni presi dall’Anp con gli Accordi di Oslo-Washington o con negoziati internazionali. Ma a questo problema non si può rispondere violando in prima persona quegli accordi internazionali e gli obblighi posti dal diritto internazionale di cui si paventa il mancato rispetto della controparte. Tutti gli attori sulla scena mediorientale devono rispettare i principi e le leggi internazionali, oltre che Risoluzione dell’Onu e la sentenza della Corte di Giustizia dell’Aja che delineano le uniche strade attraversano cui si può costruire un processo di pace. Una parte non può dire di non voler rispettare l’altra parte perché ha paura, o anche la certezza, che non rispetti gli accordi. Ognuno deve fare quello che è in suo dovere per rispettare gli accordi. Il che significa che Israele deve rispettare gli accordi internazionali che ha sottoscritto, adempiere alle Risoluzioni Onu, e non può aggredire la struttura costituzionale dello Stato palestinese. Altro problema è che anche Hamas nel momento in cui assume responsabilità di governo, deve adempiere agli obblighi internazionali, esattamente come deve fare Israele. D’altro canto, mi sembra che sul piano politico c’erano stati dei tentativi di cambiamento…».
A cosa si riferisce in particolare?
«Penso all’accordo raggiunto tra Al Fatah e Hamas sul cosiddetto “piano di pace dei detenuti”. Quell’accordo, che comportava l’implicito riconoscimento di Israele e la fine degli attacchi terroristici nello Stato ebraico, apriva la strada ad un mutamento della posizione di Hamas che nel momento in cui diventa forza, deve fare i conti, obtorto collo, con la comunità internazionale e quindi modificare la propria posizione. D’altronde in Medio Oriente all’inizio tutti erano terroristi, ma poi per forza di cosa sono dovuti entrare in un processo negoziale».