Risposte diverse, risposte che nascano da un reale interrogarsi, da un reale farsi raggiungere dallo stupore, dall’inquietudine.
Credo che debba partire da qui una diversa politica sull’immigrazione.
I grandi flussi immigratori non sono una fatalità, sono la conseguenza di un mondo ingiusto, di politiche incapaci di dare a tutti dignità, speranza, futuro.
I dati li conosciamo. Cito solo alcuni esempi. 852 milioni di persone che soffrono la fame. Un miliardo e 100mila che non ha accesso a fonti di acqua potabile – e 8 milioni che muoiono ogni anno per questo motivo. 15 milioni che, nello stesso periodo, vengono uccise dalle malattie infettive: il 97% nei Paesi del Sud del mondo.
L’immigrazione nasce anche da qui. Nessuno abbandona volentieri la sua terra, i suoi affetti, le sue radici. Lo fa se ha come alternativa la miseria, la guerra, la morte. E miseria, guerra, morte sono una realtà, oggi, per tante, per troppe persone. Volti e storie che arrivano nel ricco Occidente (1000 miliardi di dollari spesi ogni anno in armi, per gli economisti basterebbe il 5% di questa cifra per combattere davvero povertà, denutrizione e AIDS) carichi di sofferenza, di fragilità, di speranza. E cosa vi trovano? I CPT. Realtà di negazione di diritti, luoghi al di sotto di standard minimi di civiltà e umanità, come sappiamo da chi ha avuto modo di visitarli. Strutture per giunta costose e neanche funzionali al fine per il quale sono state costruite. Dal 1999, data della loro nascita, sono costate allo Stato 500 milioni di euro – quasi 1000 miliardi delle vecchie lire. Hanno visto passare 98mila persone, ma il provvedimento di espulsione è stato effettuato solo in minima parte: 3 casi su 10.
Nessuno ha ricette in tasca, ma un fenomeno come quello migratorio, carico di sofferenza, fatica, ferite morali e materiali, necessita di ben altre risposte. Necessita di un’Unione Europea che cessi di essere “Fortezza Europa”. Consapevole che la sua crisi demografica ed economica è irrisolvibile senza il contributo delle persone immigrate, e capace perciò di costruire percorsi d’integrazione, inventare forme di cittadinanza e di estensione dei diritti.
Necessita, per quel che ci riguarda, di una riforma radicale della Bossi-Fini, una legge che ha incentivato la clandestinità e il lavoro nero, consegnando tanti poveri cristi in mano al caporalato e alle mafie, alimentando al contempo un ghetto mentale di paura e pregiudizio, una visione dell’immigrato come di potenziale criminale.
Eppure sono sempre più numerosi i fatti di cronaca che ci parlano di generosità, di autentico slancio umano, e proprio da parte di chi si trova nel nostro territorio ancora privo di documenti e permessi. Vorrei citarne due, di questa estate, esemplari nella loro testimonianza di umanità e responsabilità civile.
Nasser Othman, 27 anni, lo scorso 2 luglio non esita a buttarsi in mare e a salvare tre ragazzi che stavano annegando. Nasser lavora ed è nato in Italia, ma non ha i documenti a posto: a 12 anni ha lasciato il nostro Paese per rientrarvi a 24. Dopo il salvataggio viene riconosciuto come clandestino, condannato a 5 mesi di reclusione e destinato all’espulsione. Il 25 agosto la vicenda si ripete in altre acque con un epilogo tragico: Iris Palacios Cruz, 27enne honduregna, sprovvista di permesso di soggiorno e impiegata come baby sitter presso una famiglia di Roma, perde la vita per cercare di salvare dalle onde la piccola Letizia di 11 anni, figlia dei suoi datori di lavoro. A Ines, almeno, il Presidente Napolitano assegna la medaglia d’oro alla memoria.
Dietro l’etichetta di “clandestini” ci sono insomma persone che lavorano duramente nelle nostre case, nelle nostre fabbriche e nei nostri cantieri. Non di rado in condizioni di supersfruttamento, reso possibile dalla loro condizione di invisibilità e illegalità. L’illegalità maggiore non è però la loro, che hanno colpa solo di non avere documenti in regola, bensì quella di chi approfitta di una legge sbagliata per violare i diritti più elementari.
Ma negare diritti fondamentali anche a un solo uomo è come negarli a tutti quanti.
E’ solo la loro universalità, infatti, a renderli concreti e operanti, strumenti di quella giustizia che custodisce ogni vita nella sua più profonda dignità.