A nulla sono valsi gli accorati appelli che il segretario generale del Wto Pascal Lamy aveva rivolto agli otto grandi riuniti a San Pietroburgo: ieri mattina anche l’ultima riunione risolutiva tenutasi nel quartier generale di Ginevra si è chiusa con un nulla di fatto. Il ciclo di negoziati che si era aperto nel 2001 a Doha, in Qatar, viene “congelato” in attesa del momento politicamente più opportuno per dichiarare l’avvenuto decesso. C’è spazio per un’ulteriore rilancio?
Difficile, anche se i tempi ci sarebbero e lo spumeggiante Lamy, che al tempo del fallimento di Cancun era il negoziatore europeo, potrebbe tirare fuori qualche sorpresa dal cappello di qui alla fine di agosto. Oggi però i protagonisti non possono che registrare il fallimento e cominciare a darsi la colpa l’un l’altro. Il commissario europeo al Commercio Paul Mandelson, che prima della ministeriale di Hong Kong era stato brutalmente invitato dai francesi a non fare più concessioni, si dice amareggiato: «Abbiamo perso l’ultima uscita sull’autostrada» ha dichiarato ai cronisti «Voglio esprimere la profonda delusione e la tristezza degli stati membri dell’Unione Europea, di Mariann Fischer-Boel (commissario Eu all’Agricoltura n. d. r.) e mia per il fatto che oggi si siano dovuto sospendere i colloqui. Questo non è né desiderabile né inevitabile. Sarebbe stato possibile evitarlo». L’ultimo tentativo si è consumato quando sono stati chiamati a discutere i sei grandi produttori agricoli planetari – Stati Uniti, Unione europea, Giappone, Australia, India e Brasile – una volta chiarito che non sarebbe stato possibile affrontare altri capitoli lasciando in disparte l’agricoltura.
Del resto, per quale motivo India e Brasile dovrebbero aprire ancora i propri mercati senza che le grandi potenze agro-industriali del Nord facciano altrettanto? A Cancun gli Stati Uniti e l’Unione europea fecero muro, facendo fallire la conferenza. A Hong Kong la questione agricola era stata rimessa sul piatto, anche se India e Brasile avevano accettato di tirare la volata per un accordo omnicomprensivo dove appunto si parlava di liberalizzazioni ulteriori (dei servizi, dei prodotti non agricoli, degli investimenti e la piena attuazione del regime brevettale) fermo restando l’impegno dei paesi sviluppati di ridurre il sostegno ai propri agricoltori.
Questa volta però i giochi di prestigio fra le scatole blu, verdi e gialle, come vengono chiamati i pacchetti dei vari sussidi, non sono serviti. Brasiliani e indiani si aspettavano qualcosa di concreto perché, come ha dichiarato il ministro al Commercio indiano Kamal Nath «i contadini indiani possono competere con i contadini statunitensi ma non con il Dipartimento del Tesoro».
Tuttavia l’approssimarsi delle elezioni a medio termine ha ridotto di molto il mandato della negoziatrice statunitense, Susan Schwab, la quale ha strappato alla commissione finanze del Senato ben magre concessioni ributtando la palla agli europei. Mandelson, dal canto suo, ha criticato gli Stati Uniti per non essere stati capaci «di riconoscere la flessibilità mostrata dagli altri e, come risultato, sono stati incapaci di mostrare alcuna flessibilità sulla questione dei sussidi agricoli» aggiungendo che «avevamo indicato anche prima e durante l’incontro di esser pronti a fare significativi miglioramenti alla nostra offerta di accesso al nostro mercato agricolo, portando i nostri tagli medi vicini ai livelli chiesti del gruppo del G20 dei paesi in via di sviluppo. Questo, purché altri si fossero mossi in parallelo». Il commissario europeo dà quindi la colpa agli Stati Uniti che non hanno proposto riduzioni sostanziose dei sussidi mentre, sostiene, gli europei erano più che disponibili ad abbassare le proprie tariffe doganali. Se alle magre concessioni di Washington si aggiunge poi la nuova ondata di fondi che Bush sta per riversare sull’agrobusiness impegnato nella produzione di biocombustibili, sarebbe stato un miracolo riuscire a salvare questo ciclo di negoziati.
Difficile dire cosa potrebbe accadere nei prossimi mesi. Buon senso vorrebbe che un organismo che non conclude niente dal ’99 (il Wto) venga mandato in pensione e si proceda a una seria discussione del mandato politico di un progetto a dir poco avventato, considerando anche i risultati di dieci anni di liberismo selvaggio, le cui conseguenze sono finalmente passate al vaglio degli economisti, pentiti e non. Qualunque cosa uno pensi del mercato, il disegno onnicomprensivo del Wto, imbevuto della pericolosa astrattezza dei progetti costruiti a tavolino, oltre a essere profondamente vincolato all’agenda dei grandi gruppi transnazionali era stato concepito in un mondo ben diverso da quello di oggi. Nessuno, appena cinque anni fa, avrebbe previsto l’emergere di Brasile e India come grandi potenze economiche né, tanto meno, il ritorno in grande stile del vecchio protezionismo Made in Usa. Per i paesi in via di sviluppo il fallimento di Doha è certamente una buona notizia – l’irruzione delle grandi corporation nel lucroso affare dell’acqua o della sanità sarebbe stata una tragedia, per non parlare della concorrenza delle grandi corporation alle nascenti industrie nazionali – ma non deve spingere ad abbassare la guardia nei confronti del neocolonialismo travestito da mercato. Alle superpotenze economiche restano infatti gli accordi bilaterali e quelli regionali – come gli Epa sponsorizzati dall’Unione europea – dove è sempre il paese più potente a dettare legge.