Ha uno spiccato «accento» iraniano, la città di Herat. Non solo per la lingua: il dari (una delle due lingue afghane: l’altra è il pashtoo) parlato in questa zona dell’Afghanistan occidentale si avvicina molto al farsi più puro. Il confine con l’Iran del resto è a meno di 150 chilometri di un’ottima strada (ricostruita con finanziamenti iraniani); la città di Mashad, la più importante nell’Iran nord-orientale, è a poche ore di comodo pullman.
La vicinanza spiega perché milioni di profughi afghani si siano riversati in Iran, a ondate, durante gli ultimi 25 anni di conflitti. Spiega anche perché oggi il posto di frontiera presso la cittadina di Islam Qala sia uno dei passaggi più trafficati verso l’Afghanistan, quello che raccoglie l’80% delle entrate doganali del paese (così si stima: le statistiche sono un’approssimazione in Afghanistan oggi): dall’Iran si importano i beni di consumo più vari, dalle stufette elettriche alle cannucce per le bibite, dai macchinari agli alimentari. Cosa passa nell’altro senso? L’Iran è una delle vie di passaggio principali (insieme alle repubbliche ex sovietiche a nord) degli oppiacei di cui l’Afghanistan è il primo produttore mondiale, ma questo tipo di contrabbando tende a passare per zone meno visibili della lunga frontiera. Passano invece, e molti, i cittadini afghani che tornano in Iran: non più «profughi» ma emigranti in cerca di lavoro, magari come manovali o operai edili. Ne sono un segno le lunghe code davanti al consolato iraniano di Herat, o davanti all’ufficio sanitario che rilascia il certificato necessario a ottenere quel visto.
Più in generale, l’influenza culturale iraniana è antica e profonda, come testimoniano i versi di Firdousi, uno dei massimi poeti classici farsi, istoriati insieme ai versetti del Corano nelle decorazioni della Moschea del Venerdì. Si vede anche nella presenza di una forte minoranza sciita, nei chador di molte donne (copertura meno drastica del burqa, lascia vedere il volto), anche se sono molte di più quelle che si limitano (come in Iran) a normali foulard.
Herat oggi è considerata una delle città più sicure in Afghanistan. Non si notano veicoli militari nelle strade – salvo andare all’aereoporto (quello militare, con la base Isaf, è accanto a quello civile) o avvicinarsi al Prt italiano, il complesso recintato della cooperazione militarizzata. Molte organizzazioni sociali e per i diritti umani sono attive (forse reminiscenza di un passato in cui intellettuali e forze sociali progressiste erano qui particolarmente radicate, prima di essere travolte da decenni di conflitti). Finora gli attentati contro le forze internazionali erano stati rari (uno al Prt italiano, 4 a convogli militari e di questi l’ultimo è avvenuto il 21 febbraio scorso, nel quale è morta la soldatessa spagnola Idioia Rodriguez)). Attacchi sempre attribuiti a «infiltrazioni» dal sud: quel sud da cui tutti si aspettano l’offensiva di primavera dei ribelli Taleban.
Una città ordinata, gradevole, relativamente benestante, e oggi senza fucili (polizie private) in vista. A cosa si deve? Il «signore della guerra» di turno qui è l’ex comandante mojaheddin Ismail Khan, il comandante di etnia tajika che tolse Herat al controllo sovietico, per poi farne il suo feudo negli anni ’90 (la guerra civile), prima di soccombere ai Taleban. Con la spartizione dei poteri sancita alla Conferenza di Bonn del 2001 tra i «nuovi» vecchi attori afghani, Ismail Khan ha riacquistato il suo feudo. Nominato governatore della provincia di Herat, grazie al controllo del commercio con l’Iran ha creato una zona industriale e un certo benessere nella sua città. L’Iran del resto investe parecchio in Afghanistan, e qui in particolare: 250 milioni di dollari in 5 anni per la sola provincia di Herat, 50 milioni di dollari all’anno – a paragone, l’Italia spende qui appena 8 milioni di euro l’anno tra i fondi della Cooperazione civile e quella militare.
Nel suo ritrovato feudo Ismail Khan governava come un signore assoluto: la Commissione per i diritti umani ha continuato a denunciare il persistere di prigioni «private» (del boss), o gli abusi commessi dalle sua milizie contro altri candidati durante la campagna per le legislative (è allora che la stessa Commissione si è vista incendiare gli uffici).
Ismail Khan ha perso una partita di potere con il governo centrale quando il presidente Karzai lo ha nominato ministro dell’energia, nel settembre 2004, rimuovendolo dalla carica di governatore. Ma la sua influenza sulla città resta notevole. Tanto che un anno fa, quando a Herat sono scoppiati tafferugli tra gruppi sciiti e sunniti, il governo di Kabul ha mandato proprio lui a riportare la calma. E «il signore di Herat» ha dimostrato che solo lui può controllare il campo.