Per chi hanno votato le curve? La risposta a un simile quesito potrebbe apparire scontata e perfino banale, almeno a giudicare da quello che le cronache ci raccontano ogni domenica quanto a “qualità” e quantità della presenza dell’estrema destra negli stadi del calcio italiano. Certo, alcuni noti esponenti delle tifoserie neofasciste figuravano nelle liste di Forza Nuova a Roma e nel Veneto, in particolare a Verona, per le comunali come per le politiche, ma sarebbe un errore considerare questi tentativi di egemonizzare il tifo, anche in senso elettorale, come necessariamente votati al successo o peggio presentare l’intero movimento ultrà come una sorta di semplice maschera giovanile della destra radicale. Gli ultrà rappresentano un fenomeno ben più ricco e articolato di quanto i gruppi di destra, che cercano di fare proseliti tra loro da diversi anni, riescano ad immaginare; senza contare che ci sono intere curve, certo una minoranza a livello nazionale, che non solo sono espressamente di sinistra, ma hanno anche fatto dell’antirazzismo una delle loro principali caratteristiche.
In realtà il peso assunto dalla destra allo stadio è speculare a quello che ha conquistato in tutta la società e in particolare nei suoi settori giovanili e meno garantiti. Parlare di un generico “ritorno della sinistra” negli stadi ha in questo contesto poco senso, intanto perché bisognerebbe capire di quale sinistra si stia parlando rispetto a una cultura ultrà che fonda la propria identità originaria soprattutto sull’auto-organizzazione, in secondo luogo perché il calcio è molto cambiato da quell’immagine popolare da dopolavoro di massa che gli affidava il modello sociale del fordismo. Proprio il ruolo assunto dalla destra in curva e le modifiche intervenute nel calcio nel suo complesso, vanno lette nella loro costante interazione. Per capire quanto sta avvenendo nelle curve bisogna tenere conto in particolare di due elementi. Da un lato che la strategia della destra, non riguarda solo frange minoritarie del neofascismo estremista, al limite neutralizzabili per via legale, ma si definisce come una piena occupazione del territorio stadio da parte delle destre politiche e economiche nel loro complesso, quelle che scelgono la curva come quelle che prendono posto nella tribuna delle autorità: gli ultrà neonazisti, ma anche i presidenti tiranni e imprenditori, secondo una precisa divisione del lavoro. Contemporaneamente vanno considerate le trasformazioni radicali che hanno riguardato negli ultimi anni il fenomeno del pallone, secondo un modello che non ha solo ridefinito le proporzioni degli introiti economici risultanti dai fatidici novanta minuti, ma che, all’interno del nuovo quadro “produttivo” del calcio, ha assegnato un ruolo centrale proprio al tifo ultrà, ai suoi miti e alle sue emozioni.
Utilizzando l’attuale primato, tutto capitolino, del campionato di serie A si potrebbe a buon titolo considerare lo stadio di Roma come il più importante laboratorio della svolta a destra del calcio (sul tema si veda l’inchiesta sulle destre a Roma del sito www.altremappe.org). E proprio il ricordo di un precedente elettorale può servire da valido punto di partenza. Quando nel 1993, in occasione delle amministrative della Capitale, il Msi iniziò il suo percorso di uscita dal semplice cenacolo della nostalgia mussoliana, tra i primi ambienti considerati con attenzione vi fu proprio quello delle tifoserie. Nella campagna per il Comune condotta all’insegna dello slogan “vota Fini, la persona”, i missini arrivarono a candidare oltre una decina di capi ultrà sia della Lazio che della Roma nelle liste delle circoscrizioni. Da allora la carriera più brillante l’ha fatta senza dubbio Bruno Petrella, capo ultrà della curva laziale dell’Olimpico, eletto una prima volta nel 1993 nelle circoscrizioni, quindi passato alla Provincia di Roma e oggi candidato da Alleanza Nazionale alla presidenza di un Municipio metropolitano, quello di Montesacro.
Già all’inizio degli anni novanta, però, il segnale che veniva dal calcio romano era inequivocabile. Per le due stagioni, 91/92 e 92/93, in cui Giuseppe Ciarrapico è stato presidente della Roma, la curva dei tifosi giallorossi è stata lasciata in mano a personaggi legati all’estrema destra e interessati a condurre, con il beneplacito della società, affari di ogni tipo. Vecchio fascista, ma legato più ad Andreotti che ai missini, Ciarrapico, responsabile per vent’anni dell’omonima casa editrice di estrema destra, aveva perfino messo Guido Giannettino, l’ex agente del Sid coinvolto nelle indagini su Piazza Fontana, a curare l’ufficio stampa della sua finanziaria. Del clima che regnava allora in curva sud si verrà pienamente a conoscenza solo in seguito, grazie a un’inchiesta della magistratura che nel 1996 metterà sotto accusa diversi capi tifoseria responsabili di sabotare la nuova gestione della società giallorossa, quella di Sensi, meno disponibile a elargire favori a questi personaggi. Quando i media si concentrano sulle vicende dell’Olimpico, viene fuori che nella curva giallorossa c’è di tutto: traffici illeciti, droga, prostituzione e soprattutto si scopre che tra i leader degli ultrà ci sono ex fascisti dei Nar, come Guido Zappavigna, o gente passata nelle inchieste per gli omicidi di militanti della sinistra, come Mario Corsi, neonazisti e esponenti capitolini del partito di Fini.
Gli anni novanta dello stadio romano servono poi da grande laboratorio organizzativo per l’ultradestra. Nel 1994, durante la partita Brescia-Roma i neofascisti accoltellano un vicequestore, tra i condannati per quel fatto ci saranno il capo del Movimento Politico, Maurizio Boccacci, e altri noti estremisti neri. La curva nord laziale, tradizionalmente di destra a differenza di quella della Roma che vantava una tradizione di segno opposto, sforna nuovi militanti che dallo stadio passano rapidamente ai gruppi violenti del neofascismo e alla malavita, come nel caso della serie di rapine messe a segno da giovani cresciuti nelle tifoserie.
L’appartenenza a una squadra o all’altra sembra avere sempre meno importanza, almeno fino a questi ultimi giorni in cui la vecchia rivalità sembra riesplosa con violenza. Tra il 1999 e il 2000 la Digos denuncia come a Roma gli ultrà di estrema destra “lavorino” insieme: un esempio su tutti gli scontri del maggio dello scorso anno sotto la sede della Figc organizzati dai laziali ma a cui hanno preso parte anche dei romanisti. Gli striscioni razzisti e antisemiti si sprecano quasi orgni domenica in un gioco al rialzo che coinvolge entrambe le curve. Eppure, come ci dice un’inchiesta pubblicata sull’ultimo numero di Panorama, sono le società a pagare per le coreografie degli ultrà, come ad esempio quella laziale (“Roma merda”) apparsa nel recente derby capitolino.
Nel settore laziale è apparso di tutto negli ultimi anni, ma questo non ha impedito alla società biancoazzurra di assegnare agli Irriducibili la gestione di una decina di Laziopoint, un vero circuito economico legato alla vendita del merchandaising “griffato” della squadra. Il presidente della Lazio Sergio Cragnotti critica duramente gli striscioni razzisti della sua curva, anche se è difficile sentirgli definire “fascisti” quei tifosi che espongono celtiche e slogan antisemiti: forse sarebbe un po’ complicato per una società che ha come proprio portavoce Guido Paglia, un dirigente di Avanguardia Nazionale che ha fatto carriera come giornalista, e che quando vuole dialogare con gli ultrà manda avanti il deputato di An Gigi Martini, già terzino della Lazio dello scudetto del 1975.
Dall’altra parte dell’Olimpico, se il presidente della Roma ha tagliato i fondi ai neofascisti, questo non vuol dire che guardi a sinistra: Repubblica del 10 maggio ci informa infatti del fatto che “Franco Sensi e i giocatori Totti e Cafù hanno partecipato alla serata di chiusura della campagna elettorale di un candidato di An al Comune”. Questo inquietante, e per altro necessariamente parziale, quadretto romano, ci dice quanto la “destra da stadio” sia tutt’altro che un fenomeno marginale o legato a pochi estremisti. Negli ultimi anni però a complicare le cose è sopraggiunto un altro fattore: quello stesso circuito imprenditoriale che ha spesso scelto i tifosi razzisti come proprio interlocutore si è accorto delle potenzialità che gli ultrà potevano avere per il nuovo calcio-business. Il movimento ultrà aveva, a partire dagli anni settanta, scardinato il vecchio modo di vivere il calcio, la formula familiare e da teampo libero della working class, che sfogava nelle domeniche allo stadio lo stress e la rabbia accumulati nei ritmi infernali della fabbrica. Per gli ultrà il calcio diventa una occupazione permanente per tutta la settimana, una invenzione fantasiosa di coreografie e linguaggi che inverte l’ordine tra il tempo liberato e quello della produzione, tra l’obbligo e il divertimento. La loro vita è centrata sul pallone e sulla curva, che diventa il luogo sociale per eccellenza.
Ebbene, nella sua fase di trasformazione attuale, il calcio imprenditoriale si nutre sempre di più di questa passione sviscerata, “valorizza” in senso capitalistico queste emozioni, le trasforma in merce e in profitto. La Roma e la Lazio, per restare ancora nella capitale, scalano la borsa annunciando come sia la passione a rappresentare il loro prodotto di punta. Gli ultrà finiscono così stretti tra la pressione della destra, violenta e manageriale (la gestione del Milan di Berlusconi è arrivata perfino ad oscurare i siti autonomi della tifoseria rossonera su internet) e il fatto che i loro stessi codici e linguaggi finiscano per essere i maggiori bersagli delle operazioni di marketing del nuovo modello economico del calcio che vorrebbe arricchirsi sulla loro passione. Il loro allarme lo lanciano da riviste come Supertifo parlando della necessità di costruire rapidamente un raduno di tutte le tifoserie ultrà e pensando magari a una federazione delle curve che tuteli la loro immagine e i loro diritti. E’ questo il primo possibile appuntamento dopo le elezioni.