È una corsa contro il tempo quella che, un giorno sì e uno no, Abu Alaa fa con il suo taxi. Da quando è cominciata l’offensiva israeliana in Libano, al mattino carica a bordo giornalisti e uomini d’affari e, a tutta velocità, punta verso Beirut. Passa per il transito di confine di Jaber, tra Giordania e Siria, poi fa rotta su Damasco e alle porte della capitale siriana segue le indicazioni per Beirut. Giunto finalmente al valico di Masnaa, tra Siria e Libano, Abu Alaa comincia la parte più difficile del suo viaggio: arrivare alla capitale libanese percorrendo stradine alternative alla superstrada distrutta dagli F-16. Tiene sempre un occhio al cielo, dove in ogni momento possono spuntare i caccia israeliani che hanno seminato morte e distruzione anche su queste stradine, come testimoniano le carcasse annerite degli autocarri centrati dai missili. «L’unica possibilità di arrivare a Beirut è seguire le strade provinciali che passano per Zahle e Tarshish», spiega Abu Alaa. Si parte al mattino e si arriva a destinazione nel tardo pomeriggio e approfittando, delle ultime ore di luce, Abu Alaa torna a tutto gas verso Masnaa, dove trascorrerà la notte. «Viaggiare col buio sarebbe un suicido», spiega.
Quello del tassista giordano è un viaggio controcorrente. Ogni giorno, mentre da Damasco accelera verso Masnaa, un fiume in piena di autobus, minibus, automobili di ogni tipo e dimensione procede lentamente nella direzione opposta. È il Libano che fugge, che vuole sottrarsi ad una guerra che non ha voluto, che cerca di scampare alla morte. Uomini, donne e bambini con la paura dipinta in volto. Chi ha soldi da spendere va ad Amman, sapendo che lì gli israeliani certo non attaccheranno. Tutti gli altri in Siria, approfittando dell’accoglienza che Damasco sta offrendo agli sfollati. Chi è povero, chi vive o viveva nei quartieri meridionali di Beirut o nel sud del paese, resta in Libano e non può far altro che pregare e sperare. «Siamo partiti oggi caricando a bordo tutto quello che si poteva. Abbiamo tremato di paura per giorni, i bombardamenti (israeliani) non hanno più fine e hanno già ucciso tante persone», racconta Samia, una libanese sciita che vive a Dahiye (Beirut), mentre dal finestrino spuntano timide le teste dei suoi due bambini. «I piccoli piangevano sempre, erano terrorizzati, andare avanti non era più possibile. Spero che Dio punisca severamente gli israeliani per tutto il male che ci stanno facendo», aggiunge la donna con sguardo severo.
Francis, un cristiano ortodosso, dice che raggiungerà un cugino ad Amman. «È un inferno e nessuno si preoccupa di proteggerci dalla violenza di Israele. Per fortuna ho la possibilità di trascorrere un po’ di tempo a casa dei miei parenti in Giordania». A una delle stazioni di rifornimento ad un paio di chilometri da Damasco, è fermo un minibus dipinto di bianco e di rosso, carico di passeggeri e bagagli. È l’una e fa molto caldo a bordo e persino di più davanti al motore singhiozzante dell’automezzo che Majdi Tarshihi, autista palestinese profugo in Siria, non riesce a far ripartire. «È il carburatore, non sarà facile metterlo a posto, è troppo vecchio – ammette il Tarshihi -. Mi dispiace per i passeggeri che già ne hanno viste tante, proprio come mio padre nel 1948, costretto a fuggire dal suo villaggio (in Galilea) dall’avanzata degli israeliani. Essere profughi è una condizione durissima in questa terra». Le persone a bordo hanno tante storie da raccontare.
«Ad Haret Hreik (il quartier meridionale di Beirut roccaforte di Hezbollah), le distruzioni sono immense – riferisce Umm Rabiah, una donna di 32 anni – le squadre di soccorso hanno tirato via dalle macerie tante persone ormai già morte. Molti sono andati via e ora vagano alla ricerca di un alloggio». Ad Amal Nasser, sempre di Haret Hreik, che incontriamo a Beirut, le cose sono andate meglio. Non ha più una casa – è stata centrata da missili israeliani – ma una sorella della madre che vive ad Hamra, ospiterà la sua famiglia per qualche mese, nella speranza che vengano stanziati fondi per i senzatetto che solo a Beirut sarebbero alcune decine di migliaia. Molti profughi condannano Israele, alcuni invocano la «punizione di Dio», altri sollecitano la «rappresaglia». Nessuno invece critica Hezbollah, anzi, il segretario generale del Partito di Dio, lo sceicco Hassan Nasrallah, ha toccato il massimo delle popolarità, non solo tra gli sciiti, proprio in questi giorni.
Un’onda umana è anche quella che giunge dal sud, superando difficoltà enormi per la mancanza di strade percorribili. Le agenzie umanitarie internazionali dicono che tra 500mila e 700 mila abitanti delle regioni meridionali del Paese si sono messi in marcia verso Beirut sotto i massicci bombardamenti. Israele ha dato un’ulteriore spinta all’esodo, intimando alle popolazioni del sud del Libano di abbandonare le loro case per lasciare spazio ai combattimenti.
Ieri rappresentanti di Ong locali e internazionali si sono radunati sotto l’edificio che ospita la rappresentanza delle Nazioni Unite a Beirut per protestare contro «l’aggressione militare israeliana», chiedere «l’immediata cessazione dell’assedio» e denunciare «il silenzio omicida» con il quale la comunità e l’opinione pubblica internazionali «assistono al massacro in atto contro il popolo libanese». L’Unione europea da parte sua abbassa la testa di fronte alle imposizioni degli Usa alleati di Israele e, come sempre, si limita a donare qualche milione di euro per gli aiuti umanitari più urgenti. Peraltro uno dei problemi più difficili al momento è come far arrivare gli aiuti alle agenzie dell’Onu, alle Ong e alla Croce Rossa internazionale perché le vie di comunicazione sono distrutte.