Il viaggio dal Sudan termina a Milano Storie da via Lecco

Come fanno a resistere? Chi li ha visti, prima in via Lecco, poi seduti per terra in piazza Duomo, immobili, senza lamentarsi, non può non essere rimasto impressionato dalla forza dei rifugiati africani. Sono scappati dalla guerra, e questa potrebbe essere una mezza risposta. Come Abudaker, Seif, Hamed. Vengono dal Sudan, Darfur. Raccontano, e quando dicono guerra intendono guerra, difficile da comprendere ma c’è poco da aggiungere. «Tutti hanno perso qualcuno, scappi e incontri altra gente che scappa». Poi un viaggio, tremendo, «forse anche peggio della guerra». E l’Italia. Avevano sentito dire che qui era un paese accogliente che li avrebbe difesi.

Il viaggio della paura

Abudaker in Libia ha mentito, l’avrebbero arrestato se avesse detto che voleva raggiungere l’Italia. «Tra il Sudan e la Libia c’è il grande deserto – racconta – il viaggio era troppo difficile ed è durato 20 giorni, non avevo idea di dove andare, ma tutti sanno che in Europa c’è democrazia, diritti umani e che si riescono a capire le storie degli uomini. Sono rimasto 15 giorni in Libia, nel maggio 2005, ma lì non bisogna dire che vuoi andare in Italia, altrimenti ti mettono in prigione». Per Seif è stato difficile salire sulla barca – «il pezzo di legno» – per raggiungere l’Italia, in duecentoventi, 1500 euro a testa. «Potevo andare anche in Camerun o in Ciad, dove c’è una associazione che dà un passaporto umanitario, ma bisogna aspettare 5 o 6 mesi, e lo fa solo chi ha soldi per aspettare. Volevo andare in Gran Bretagna, era un sogno, lì trattano bene gli asilanti, ma poi ho lasciato perdere, perché sono arrivato in Italia e ho capito che la realtà è un’altra. Il male più pericoloso è prendere il pezzo di legno con cui si può arrivare. Dal Sudan sono andato in Libia, attraverso il deserto, 90 persone su un camion. Passare la frontiera non è facile perché se la polizia libica ti ferma ti dà alla polizia del Sudan. In Libia sono rimasto un anno, ho lavorato in nero. Se non entri a Tripoli non ci sono problemi. Ho pagato 1500 euro per andare in Italia. Eravamo in 220 su una barca».

Hamed ha rischiato di annegare. «Avevo sentito che l’Italia è un paese democratico e poi è la più vicina», racconta. «Uno arriva, non ha soldi, è stanco, si ferma. Siamo partiti in 38 su una barca. Siamo arrivati a Lampedusa nove giorni dopo. In Libia ti danno la barca e ti dicono di arrangiarti, ci deve essere un volontario che si offre di guidare, è importante che ti diano la bussola. Quando ci siamo avvicinati all’Italia, nessuno voleva più guidare perché si sa che ti mettono in prigione e così la barca si è rovesciata»

La terra promessa

L’accoglienza. Per Abudaker, con il «permesso umanitario» in mano, vuol dire anche rimediare un boccone rovistando nei cassonetti. «Abbiamo viaggiato per 10 giorni, a volte senza mangiare, sulla barca eravamo in ventisette. Sono arrivato a Lampedusa il 22 maggio, con la barca trainata. Nel campo eravamo in trecentoquaranta. Lì nessuno dice nulla, mi hanno identificato con le impronte. L’acqua è salata, non ci sono docce. Sono rimasto 10 giorni, dopo mi hanno portato al campo di Borgo-Mezzanone, a Foggia, ci sono rimasto due mesi. Non avevo scarpe, mi hanno detto che non ce le avevano. Mi hanno dato il permesso umanitario per un anno, ad altri hanno dato quello politico. La Commissione mi ha interrogato due ore, sapeva tutto del Darfur. Quando mi hanno lasciato andare sono rimasto un mese a Foggia, speravo che qualche associazione mi desse qualcosa, io non avevo né soldi né nient’altro. Poi, senza soldi, sono andato verso il Nord e scendevo dai treni ogni volta che veniva il controllore. Sono stato due o tre giorni a Venezia, ma non avevo niente. Vivevo in strada e mangiavo dai cassonetti della spazzatura. Quando sono arrivato a Milano pensavo di risolvere i problemi, avevo degli amici e li ho raggiunti, abbiamo vissuto per strada, ma faceva caldo, non come adesso».

A Lampedusa Seif si è sentito umiliato. Spogliarsi davanti a tutti. Sulla riva di Lampedusa c’erano i militari. Era il 16 agosto e c’erano 400 persone. Quando arrivi al campo ti tolgono i vestiti e ti mettono nudo davanti alla polizia, in gruppi di quattro, ma per la nostra religione noi non possiamo stare senza vestiti in gruppo. L’abbiamo detto ai militari ma ci hanno minacciati dicendo che ci avrebbero riportati indietro. Nessuno parla, non c’erano avvocati, a Crotone, invece, ci hanno dato dei fogli. A Crotone sono rimasto due mesi e poi mi hanno dato l’asilo umanitario, era ottobre e il permesso è valido sino al 6 ottobre del 2006. Al campo non mi hanno dato soldi, solo un biglietto fino a Salerno, dicendomi che potevo andare a Roma. Sono arrivato a Roma e sono venuto a Milano. Scendevo dal treno ogni volta che c’erano i controlli, così ci ho impiegato 24 ore, mi hanno fatto scendere sei volte.

Per Hamed, a Lampedusa, sono cominciati i problemi con i soldi. «Lì se hai soldi puoi comprare una scheda telefonica, non per il cellulare perché è proibito. Compri una scheda di 3 euro per 10 euro. Sono rimasto cinque giorni poi mi hanno portato a Crotone. Anche lì vendono le schede, un militare le vende per cinque euro, ma puoi comperare anche un pacchetto di sigarette a tre euro. In due mesi ho ricevuto una saponetta e un po’ di detersivo, uno spazzolino. Mi hanno dato un biglietto per Salerno e quando siamo arrivati il controllore ci ha detto di scendere. Noi eravamo in 25 e abbiamo detto di no, lui ha chiamato la polizia. Abbiamo aspettato il treno successivo, ci siamo mischiati con gli altri passeggeri e siamo arrivati a Roma. A Roma abbiamo deciso di rimanere, siamo arrivati nel paese della libertà, ci siamo detti. Siamo andati alla stazione, abbiamo chiesto alle ferrovie se ci facevano andare a Milano ma ci hanno detto che dovevamo pagare 50 euro. Qualcuno ha venduto qualche oggetto, un orologio, ma la maggior parte di noi è salita senza soldi».

Finalmente a Milano

Nella capitale «della pubblicità della democrazia», Seif per settimane è stato braccato dai controllori sugli autobus e poi, insieme a trecento rifugiati, ha deciso di occupare lo stabile di via Lecco. «Ho trovato una guerra di ingiustizia. Con altri sudanesi ad ottobre abbiamo fatto una manifestazione in piazza Duomo, è arrivata la polizia e ci ha detto che ci avrebbero dato un alloggio e ci hanno dato un appuntamento. Poi abbiamo fatto un’altra manifestazione e un’altra ancora. Vivevamo per la strada e abbiamo pensato di fare questa manifestazione perché qui fanno la pubblicità della democrazia. La polizia, la terza volta, ci ha presi con la forza, ma alcuni passanti sono intervenuti. Non vogliamo andare nei letti per l’emergenza freddo, perché devi uscire alle 7 del mattino e non sai dove andare. Vai in giro e sugli autobus arrivano i controllori, ti danno la multa e devi scappare». Hamed, che ha visto la guerra, adesso dice «dell’Italia abbiamo immaginato una cosa e invece è un’altra. Eravamo disperati e lo siamo anche qui».

(ha collaborato Samir Elhilali)