Il vento soffia. Con o senza Chavez

A lume di logica sembrava impossibile che in Ecuador, uno dei paesi più poveri e ingiusti dell’America latina, vincesse in libere elezioni l’uomo più ricco del paese – «il Berlusconi ecuadoriano» -, il re delle banane, (ovviamente) amico di Bush ed entusiasta del trattato di libero scambio su cui il presidente in carica Palacio non si azzardava a mettere la firma nel timore di essere il settimo presidente in dieci anni a dover sloggiare in fretta e furia dal palazzo presidenziale di Carondelet a Quito.
Una volta, fino a poco tempo fa, sarebbe finita così. L’uomo più ricco e più succube agli interessi alieni (oltre che ai propri), avrebbe vinto le elezioni, votato dai poveri. Che anche in Ecuador sono la stragrande maggioranza della popolazione.
Però le cose sono cambiate. Lula in Brasile è stato rieletto dalle masse povere del nord-est. Evo Morales in Bolivia è statto eletto dalle masse indie escluse da sempre. Chavez in Venezuela è stato eletto (e si rappresta a essere rieletto domenica) dal popolo dei ranchitos affogato in un’incredibile povertà dalla minoranza democratica che ha fatto i miliardi (di dollari) sfruttando a proprio uso e consumo un oceano di petrolio. Un cadavere politico come Daniel Ortega è stato riesumato dal popolo del Nicaragua non certo dalle sue controverse virtù politiche quanto dai tre lustri di devastante politica neo-liberista dei presidenti democratici.
Rafael Correa non è un sovversivo e neanche un indigeno come Evo Morales o un migrante nordestino come Lula o un meticcio di provincia che ha trovato nella carriera militare la sua via d’uscita come Hugo Chavez. Nato nella ricca Guayaquil, economista laureato nell’università belga di Lovanio e poi negli Stati uniti, bianco e cattolico (anche, ciò che lo rende sospetto, parla il quechua), non dice niente di più che di voler parzialmente rivedere il pagamento del debito estero, di essere contrario al patto leonino che va sotto il nome di Trattato di libero scambio con gli Usa, di voler rivedere (e aggiornare) i contratti-capestro sul petrolio dell’oriente ecuadoriano con le grandi multinazionali, di voler riscrivere una costituzione fatta dalla e per la minoranza bianca sulle spalle della grande maggioranza india, di non essere più disposto a regalare per pochi spiccioli la grande base aero-navale di Manta agli interessi strategici di Washington (e del suo alleato colombiano Alvaro Uribe).
E’ troppo? E’ sovversivo? E’ populista? O è solo il minimo? Il vento di cambio soffia sull’America latina. In molti hanno esultato con troppa fretta per lo stop imposto a Chavez dopo la vittoria in Perù di Alan Garcia o il fallimento della candidatura venezuelana al Consiglio di sicurezza. In realtà quel vento soffia, anche grazie a Chavez ma indipendentemente da Chavez.