La Grande Rapina è a 700 chilometri da Venezia. A Timisoara, Romania. L’Eldorado, il paradiso fiscale, l’assalto a manosalva, la terra e le braccia a prezzi stracciati: c’è tutto questo a 700 chilometri da Venezia: dentro la voragine del crollo comunista, “loro” si sono buttati a capofitto. L’affare del secolo. Loro, i già celebrati padroni e padroncini del favoloso Nordest, quella formidabile landa triveneta patria eletta della miriade di Pim (Piccole e Medie Imprese, con la maiuscola) qui sorte, diffuse e operanti anche nella dimensione di una ogni 7-10 abitanti. Il favoloso Nordest, la locomotiva d’Italia, il “Giappone” del vecchio continente, il reddito pro capite più alto del paese, il secondo miracolo economico. Quello che qualcuno riassumeva, magari, anche così: «Lavoro nero, cottimo, overdose di ore lavorative, una filosofia di vita stravolta dalla corsa al successo, alla produzione, ai soldi» (Gian Antonio Stella “Schei”, Baldini&Castoldi). Mettici pure una bella mole di evasione fiscale, e si avrà quel mix di genialità e capitalismo predatorio che ha spinto il Triveneto a bucare l’ozono, con quei nomi – e quei miliardi di miliardi – lanciati alla conquista del mondo, Luxottica, Benetton, Marzotto, Zanussi, Zoppas, Geox, Levi’s, Riello, Stefanel, Olivetti. Dal 1990, la Romania è un buon bocconcino, gli “spiriti animali” nordestini, mollto bene allenati dalla riuscitissima “campagna” italiana, si lanciano sulla preda inerme, pancia mia fatti capanna. C’è di che “mangiare” alla grande, padroni, padroncini (“quelli che portano tutta la loro ditta in automobile”), mediatori, procacciatori, osti, idraulici, falegnami, piazzisti e terzisti – soprattutto terzisti – calano in territorio rumeno. “Spiriti animali”, cavallette. I dati sono ufficiali, desumibili dalla Camera di Commercio, vuoi italiana vuoi rumena. Nel quindicennio 1991-2005 le imprese italiane piombate in Romania e regolarmente registrate risultano essere circa 15 mila (su un totale di aziende straniere che oggi in territorio rumeno si aggira intorno alle 100mila). Di esse, almeno un quarto ha accento triveneto di una “occupazione” – ancora dati ufficiali alla mano – penetrata in profondità con truppe cammellate e ben addestrate all’uopo: rapidamente infatti l’Italia, col Nordest in prima linea, si piazza in pole position: 500mila lavoratori rumeni alle proprie dipendenze, quinto paese investitore in termini assoluti (dopo Olanda, Germania, Francia, Cipro) e primo come numero di aziende impiantate (appunto di massiccia provenienza nordestina), un giro d’affari di grandi dimensioni. Uno studio, aggiornato al 31 maggio 2005, condotto da Levi Bettin (Politiche internazionali Cgil Veneto) sul distretto di Timosoara, offre un quadro più dettagliato ed anche più eloquente. Dunque, alla data riferita, in questa zona – distretto di Timis – risultano essere 1841 le aziende con almeno un socio italiano, 479 (il 21%) delle quali con almeno un socio residente in Veneto (Treviso in testa, seguita da Vicenza, Venezia, Verona, Rovigo, Belluno). Iniziata subito dopo il crollo del governo comunista, la scalata ha assunto ritmi sempre più veloci (incrementi annui dal 9 al 19%) a partire dal 2000, quando la crisi del modello Nordest, sotto la pressione della concorrenza internazionale, ha spinto padroni e padroncini a cercare nuovi bocconi da addentare (e a condizioni più favorevoli). La pacchia chiamata Romania. Che tipi di padroni e padroncini? Lo studio di Levi Bettin è esauriente. Delle 479 aziende venete trapiantate colà, 152 operano nell’edilizia, 100 nell’agroalimentare, 60 nel tessile, abbigliamento, calzaturiero, 42 nei servizi alle imprese; praticamente ramificate in tutti i settori, auto, turismo, logistica compresi. Niente affatto “robetta”. Per esempio, nel settore edile, le aziende venete, dice Levi Bettin, «coprono tutta la filiera. Vi sono studi di architettura, ingegneria e consulenza tecnica, agenzie per la compravendita e la locazione di immobili propri, imprese di demolizione, di estrazione di ghiaia, di costruzioni di infrastrutture quali strade, ponti, piste aeroportuali». Per esempio, nel settore agro-alimentare (100 aziende), anch’esso a ciclo completo, dall’allevamento alla semilavorazione dei prodotti. Per esempio, nel tessile-abbigliamento calzaturiero, 60 aziende. Con qualche piccolo inconveniente: come nel caso di quel calzaturificio che, prima del crollo di Ceaucescu, ovviamente a totale capitale pubblico, «occupava 6mila dipendenti e adesso ne conta solo 400 ed è a totale capitale privato». Andate in Romania. Confindustria e Confcommercio “allettano” e sovrintendono, protese anima e corpo ad approfittare dell’incredibile opportunità di business inaspettatamente piovuto da uno dei “paesi proibiti” dell’ex cortina di ferro. Inseguendo l’odore dei soldi, hanno messo insieme a tutta velocità strutture, organizzazioni, istituti, uffici studio, camere di commercio. Si chiama Unindustria la branca confindustriale triveneta delegata ad avere le mani in pasta nel ricco piatto rumeno, sedi a Treviso, Padova, Belluno, Bucarest, Timisoara; uffici stampa, uffici studi, consulenze bipartisan, siti on line, scambi fittissimi, operazioni finanziarie, collegamenti aerei pressochè quotldiani. Insomma Romania come il cortile di casa, se volete anche “l’ottava” provincia triveneta. Il mio grosso grasso affaire
rumeno. A partire dal 2002 «è diventata operativa – spiega la Unioncamere nordestina – “Fundatia Sistema Italia-Romania” che associa due delle principali confederazioni del’imprenditoria italiana (Confindustria e Confartigianato), una delle maggiori associazioni di categoria (Ance) e cinque più grandi strutture territoriali del sistema Confindustria». Non c’è da stupirsi se, dietro le fitte schiere di piccole e piccolissime aziende che utilizzano massicciamente la formula delle società miste e operano pelosamente sopratutto nelle cosiddette “zone franche” e “zone depresse”, fioriscano oggi le joint ventures promosse da grandi aziende come Stefanel, Benetton,
Olivetti. Né c’è da stupirsi che grandi gruppi come Fiat, Ansaldo, Eni, Agip, Alitalia, Butangas, Generali, Merloni, Parmalat, Snam, si diano da fare in Romania. E nemmeno le banche dormono. Calate anzi come falchi. Dice con cognizione di causa l’Unindustria di Padova: «Per la presenza degli istituti di credito italiani in Romania, il 2000 è stato l’anno della svolta. Alcune delle più importanti banche vi hanno aperto filiali o desk operativi » (dalla Banca di Roma all’Unicredito, al Monte dei Paschi di Siena). Addio, pallido, vampiresco conte Dracula, sconfitto dai prodi triveneti: proprio nel cuore di quello che fu il suo temuto regno, il distretto di Cluj Napoca, capoluogo della Transilvania, oggi infatti profittevolmente pascolano oltre 950 imprese italiane, specialmente padovane. Venite a Timisoara. La “città dei parchi e dei fiori”, così chiamata per i suoi 450 ettari di spazio verde. La città “che piace agli italiani”. Un sito rumeno, appositamente curato in lingua italiana, “Timisoara on line”. Fa avances molto seduttive. Ex piccolo centro fortificato sorto nel 1212, ex dominio romano, ex capitale industriale negli anni del comunismo, oggi con 450 mila abitanti è la terza città della Romania, nonchè il distretto rumeno con la più forte penetrazione di capitale straniero. A Timisoara – diventata famosa in tutto il mondo perchè proprio quì, nella piazza antistante la cattedrale ortodossa, nel dicembre 1989 partirono i colpi di mitragliatrice che dovevano portare all’abbattimento e alla uccisione di Ceaucescu – gli italiani, soprattutto se maschioni, possono oggi, a comunismo kaputt, approdare felici e contenti, e non solo sotto il versante business. Dice infatti il suadente sito: «Timisoara e la regione di Timis sono pure note per le tante riserve di caccia, dove è possibile sparare a lepri, caprioii, fagiani, cervi, cinghiali e diversi altri animali». Dove «più di 200 ragazze rumene, moldave, russe ed ucraine tutte le notti si esibiscono nei 15 locali notturni, ed intrattengono parlando in italiano». Dove, se non bastasse, «ci sono tanti casinò e tutti offrono ambienti calorosi e parecchio accoglienti». Schei. Soldi. Macchè ragazze moldave nonchè ucraine, macchè casinò. A far piombare in Romania gli imprenditori, i trafficoni, e anche i traffichini, triveneti, sono sempre loro, i bei soldoni. E perchè proprio qua, è presto detto. Ci sono un sacco di buone ragioni, in effetti. «Vorrei qui ricordare – scrive sempre Levi Bettin nella citata relazione – che il salario medio in Romania oscilla tra gli 80 e i 100 euro al mese». Sì, avete letto bene. Dice con candore Unioncamere: «Il motivo principale che spinge le imprese a delocalizzare è la differenza del costo del lavoro: infatti il costo del lavoro medio procapite in Romania è un settimo del costo del lavoro in Veneto». Non solo: gli oneri sociali sono pressoché a zero, idem le tasse, quasi inesistenti i controlli, praticamente senza oneri e sorprendentemente veloci le pratiche burocratiche (5 giorni per aprire un’impresa e 20 per una concessione edilizia) e anche le materie prime si acquistano a prezzi stracciati. Delocalizzazione, una specie di nuova parola magica. Prendere o lasciare, gli imprenditori venuti dall’Italia non credono alle lacrime. Di diritti sindacali, neanche a parlarne. «Nelle aziende controllate dagli italiani e dai veneti nella regione di Timisoara i lavoratori iscritti al sindacato sono discriminati e minacciati di licenziamento», accusa Adrian Negoità, presidente del sindacato Fratia di Timisoara nel corso di un incontro con la Cgil Veneto non più tardi del 18 novembre scorso. Conferma Andrea Castagna, segreteria Cgil Veneto: «Pochi mesi fa siamo andati in missione a Timisoara e gli imprenditori di Unindustria Romania si sono rifiutati di incontrarci con un pretesto dell’ultimo momento.
La verità è che ai nostri industriali da delocalizzazione il sindacato fa paura». Andate in Romania. «Attualmente il 5 per cento del terreno
agricolo rumeno è stato acquistato da aziende straniere: italiani, tedeschi, statunitensi, arabi, israeliani. Il valore del terreno rumeno è tra i più bassi in Europa», scrive Devi Sacchetto nel libro-inchiesta che ha scritto sul tema (“Il Nordest e il suo Oriente”, edizioni Ombre corte, pp. 306, euro 18). Il volume offre anche una illuminante panoramica sulla Romania del dopo Ceaucescu, tramutatasi in meno di un decennio in una specie di terra di nessuno praticamente in svendita. «A livello complessivo tra il 1989 e il 1999 il numero di salariati è declinato di oltre tre milioni e mezzo di persone passando da 8,3 milioni a poco più di 4,7. Soprattutto l’industria è stata colpita da questo
fenomeno, passando da quattro a due milioni». Il deterioramento delle condizioni di vita è perdurato nel decennio successivo alla caduta del regime comunista, «nel 2001per i rumeni le spese per il cibo e le bevande costituivano quasi il 60 per cento dell’intero reddito a disposizione ». Così pure il numero ufficiale dei disoccupati ha continuato a crescere per tutto il decennio, fino a raggiungere il milione e mezzo; l’inflazione dal canto suo non è mai stata al di sotto del 30-40 per cento; e quanto ai salari reali, nello stesso decennio, sono diminuiti del 44 per cento. «Nel gennaio del 2003, il livello del salario minimo mensile si situa a circa 77 euro, mentre il salario medio è pari a circa 100 euro». Non si troverà certo strano che, come scrive sempre Devi Sacchetto, «la percezione diffusa tra i rumeni è di una sorta di processo di colonizzazione. Gli italiani sono arrivati un po’ come i “conquistadores”». E con loro sono apparsi anche i nuovi tipi rumeni, quella nuova classe di capitalisti, che il popolo chiama i “miliardari di cartone”. O anche “le scrofe che si arrampicano sugli alberi”.
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