Il vendolismo di governo

“Il pacchetto sicurezza non basta ma serve”. Quando Nichi Vendola pronunciò queste parole, all’indomani del decreto varato dal governo dopo l’omicidio di Giovanna Reggiani, nel suo partito, Rifondazione comunista, furono in molti a scuotere il capo. A Paolo Ferrero, nel consiglio dei ministri, forse fischiarono le orecchie: «Se fossi ministro – aveva detto il governatore della Puglia – voterei le misure proposte da Amato». Un’affermazione tanto più impegnativa in quanto scandita dalla stessa persona che solo qualche settimana prima aveva protestato contro la prima “offensiva securitaria” germogliata a sinistra: «Il problema non sono i lavavetri», aveva tuonato Nichi contro le iniziative “fiorentine”.
La verità è che ci sono due Nichi Vendola. Il primo è quello che ci consegna l’iconografìa del Vendola “pasoliniano” che identifica il capitalismo con la solitudine, più Benjamin che Marx, più Gramsci che Lenin, l’uomo che mescola comunismo, diversità, afflato religioso, classe operaia e masse, poesia e comizi. L’altro è il Vendola uomo di governo, quello catapultato sulla poltrona di Governatore della Puglia a furor di primarie, era il 16 gennaio 2005, nemmeno lui pensava di vincere ma solo di fare un’ottima figura. Lì è iniziata la metamorfosi di Nichi, da quel momento si è reso conto che – osservazione dalemiana – «non c’è solo il momento della protesta». «Questo mestiere è un calvario – disse in un’intervista – ti senti responsabile di tutto. È entusiasmante quando riesci a indicare un ribaltamento, una prospettiva, è però insopportabile il suo ritmo travolgente, la solitudine». Il Vendola-2 si è dovuto misurare in questi due anni con cose concrete come la vicenda dell’acquedotto pugliese, quando dovette conoscere una delusione. Scelse un’icona dei no global, Riccardo Petrella, come presidente della società che gestisce gli acquedotti pugliesi, lo slogan che questi aveva in mente era più o meno “acqua gratis per tutti”, le solite chimere della sinistra-sinistra che vanno a sbattere contro la realtà. E infatti così avvenne. Vendola lo sostituì con un ingegnere con meno velleità, Ivo Monteforte, chiamato a gestire l’esistente con più razionalità e meno sogni. Oppure la sanità, campo in cui ha lavorato sodo per riportare trasparenza ed efficienza ma dove sarà costretto ad alzare le tasse, a riprova che anche la buona amministrazione costa. Senza compromessi, sull’energia: «Non intendiamo ospitare alcun sito per il deposito delle scorie nucleari», e la storia del rigassifìcatore di Brindisi non si sblocca: «Noi pensiamo, poco “berlusconianamente”, che il futuro sia nell’energia del vento, del sole, dell’idrogeno, delle fonti rinnovabili».
I pugliesi continuano a dargli credito. Innanzi tutto perché Vendola governa onestamente. È uno che ci crede, non è un politicante. E al sud questo fa una certa impressione. Verrà richiamato a Roma? No, resta in Puglia. Per la guida della Cosa rossa – pardon, Sinistra e Arcobaleno – c’è tempo. Bertinotti pensa a lui, e non da oggi: se S&A si presenterà unita alle elezioni avrà bisogno di un capo carismatico, e la stessa cosa pensa Giordano, l’ amico di sempre, i due figiciotti baresi che non seguirono Occhetto sorbendosi le ramanzine di D’Alema che in quel di Puglia contava e conta. Vendola può essere il vero antiWalter. «Mai stato comunista», disse il segretario del Pd. Un «comunista particolare», si definì al contrario Vendola: speculari. E per il Pd una Cosa rossa vendoliana e governista potrebbe essere molto interessante, potrebbe scompaginare lo spartito, potrebbe clamorosamente riaprire il gioco a sinistra. Potrebbe. Perché è tutto da vedere se Diliberto e Pecoraro Scanio accenderanno senza retropensieri la luce verde al progetto, lasciando nel cassetto falci, martelli e soli che ridono. E se saranno disposti a farlo nel segno di Nichita.