Il vecchio Pci non era antisemita

La drammatica spirale di violenza che si è di nuovo abbattuta in Libano e l’appuntamento diplomatico di ieri a Roma, che ha visto tra i protagonisti il governo italiano e il ministro degli Esteri, nonché ex comunista, Massimo D’Alema, hanno riportato indietro l’orologio della storia. Sia perché il paese dei cedri è di nuovo sotto le bombe dello stato ebraico, come avvenne negli anni ’70 e ’80, sia perché l’iniziativa della Farnesina è stata voluta con forza da un uomo cresciuto politicamente nelle stanze di Botteghe Oscure. Per tutte queste ragioni Il «problema Israele» (Guerini studio, pp. 467, euro 29,50), realizzato da Luca Riccardi, docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università di Cassino, è un testo di grande utilità perché ripercorre, con dovizia di particolari e di fonti, l’atteggiamento del governo italiano e del Pci, tradizionalmente filo-arabi, nei confronti di Israele dal 1948 fino alla guerra del Kippur del 1973. E dunque le perplessità della Democrazia cristiana e di Aldo Moro, negli anni ’60 presidente del Consiglio e poi ministro degli Esteri, nei confronti della politica di Tel Aviv, e la posizione del gruppo dirigente comunista, stretta tra la necessità di ricordare come l’esistenza di Israele significasse «la continuazione della battaglia contro il razzismo e l’antisemitismo che ci vide insieme ai combattenti ebrei nella Resistenza, nei campi di sterminio di Auschwitz e di Mauthausen», come disse Giancarlo Pajetta il 26 maggio del 1967, alla vigilia della guerra dei Sei giorni, e quella di non perdere di vista il ruolo che via via il giovane stato andava assumendo nell’area. «Non è infatti la presenza di Israele in sé che per noi è in questione – scriveva allora Maurizio Ferrara, direttore de L’Unità, il 24 maggio 1967 – ma la strumentalizzazione che di Israele viene fatta di divisione e di rottura dell’equilibrio arabo.»
L’importanza di tenere dunque la porta aperta agli israeliani pur mantenendo una politica apertamente filo-araba e filo-palestinese era così fortemente sentita anche allora. E il problema esplose ancor più, come riporta puntualmente il volume di Riccardi, alla fine degli anni ’60, quando il lento abbandono della linea filo-sovietica da parte del Pci con la condanna dell’invasione della Cecoslovacchia, portò il partito di Longo e poi di Berlinguer ad accentuare la propria linea antiimperialista e dunque filo-araba, non senza contraddizioni tuttavia con le forze progressiste israeliane e in particolare con i comunisti di quel paese, la cui presenza alla Conferenza Mediterranea del 9 e 11 aprile del ’68 venne osteggiata fino alla fine dagli arabi, con evidente disappunto di Pajetta, capo-delegazione alla Conferenza. L’emblema del tormento interno al Pci nei confronti della questione israelo-palestinese fu il caso Terracini e Ascoli. In particolare l’autorevole costituente più volte aveva espresso il proprio dissenso sui toni che L’Unità aveva assunto nei confronti di Israele, in aperta contraddizione, sosteneva il capo dei senatori del Pci, con la linea espressa da Berlinguer nel corso della Conferenza internazionale dei partiti comunisti a Mosca il 25 luglio 1969. Come dire che comunque la linea del partito, che parlava sì di «aggressione israeliana» nei confronti dei paesi arabi, ma anche di «diritto all’esistenza di Israele come stato sovrano» era corretta. Un dibattito che non poteva non affrontare la questione dell’antisemitismo. In Urss, paese al quale come è noto il Pci continuava ad essere legato, l’antisemitismo, «presente – come ricorda Riccardi – dai tempi degli zar» e utilizzato poi «come arma di lotta politica all’interno del Pcus» non riguardava certo il Pci. Lo stesso Terracini tirò in ballo questo punto quando alle elezioni politiche del 1972 non vennero ricandidati Emilio Sereni e Giorgina Arian Levi, oltre alla sconfitta che subì Carlo Levi a causa delle difficoltà legate al suo collegio. «L’anziano senatore comunista – scrive sempre Riccardi – faceva notare che il partito aveva rinnovato “quasi per metà” i propri gruppi parlamentari e quindi che fra i “centocinquanta deputati e senatori non ripresentati vi fossero tre ebrei non solo non confermava la diceria, ma la illuminava di ridicolo. ”»
Il tema dell’antisemitismo in relazione alla politica estera del Pci venne di nuovo tirata in ballo nel 1973, proprio mentre imperversava la guerra del Kippur. L’autorevole sociologo Alfonso Di Nola con il volume Antisemitismo in Italia 1962-1972 metteva sotto accusa l’opinione pubblica di sinistra sostenendo il rischio sempre più forte di distinguere tra antisemitismo e antisionismo. Netta fu la reazione del Pci: «Di Nola non è in grado di indicare una sola parola proveniente dal movimento operaio, democratico, di sinistra italiano nel quale affiori una qualsiasi confusione tra antisionismo e antisemitismo…» scriveva su L’Unità Luca Pavolini. L’obiettività con la quale Riccardi esamina il rapporto tra i comunisti italiani e i vari aspetti della problematica mediorientale aiuta non soltanto a capire meglio quella fase storica ma anche a riposizionare i termini di una questione, quella appunto del rapporto tra sinistra e stato d’Israele, banalizzata recentemente da una propaganda di destra finalizzata solo ad ottenere facili consensi all’interno dell’amministrazione Bush e della leadership israeliana.