La forte disoccupazione, che nemmeno i ritocchi fatti alle statistiche per ordine del governo riescono a nascondere agli analisti della Commissione di Bruxelles, il precariato diffuso a un anno dal movimento contro il Cpe, l’importanza che sta prendendo il fenomeno dei lavoratori poveri, hanno rimesso la questione del lavoro al centro della campagna per le presidenziali. Ma cosa c’è dietro il riferimento al «valore lavoro», messo in primo piano sia dal candidato di destra Nicolas Sarkozy che dalla socialista Ségolène Royal? Il sociologo Robert Castel, specialista della questione sociale e dei problemi del lavoro, spiega la svolta che sulla questione «lavoro» è in corso in Francia.
Anche se adesso il tema è stato un po’ offuscato dalle discussioni sull’identità francese, il lavoro è stato al centro della prima parte della campagna e sta riprendendo quota nella dirittura d’arrivo prima del primo turno. Come mai viene affrontato in termini di «valore», in un momento di estrema penuria di occupazione?
Da 4-5 anni si sta producendo, difatti, una bizzarria: dieci anni fa, la discussione sulla fine del lavoro aveva molta audience, si parlava di relativizzazione del valore lavoro ed era stata avviata, più seriamente, una riflessione sulla riduzione del tempo di lavoro come mezzo contro la disoccupazione, lavorare meno ma lavorate tutti. Bruscamente, da qualche anno il discorso si è cristalizzato attorno al valore lavoro, da tutte le parti viene fatta un’apologia del lavoro, viene detto che tutti devono lavorare. Di qui la campagna della destra, un po’ isterica, contro le 35 ore. Jean-Pierre Raffarin, quando era primo ministro, aveva affermato che la Francia non doveva diventare il paese del tempo libero. Al tempo stesso, c’è stata la stigmatizzazione del disoccupato, equiparato a un fannullone, a un parassita che gode dei diritti sociali e vive alla spalle di chi lavora. Un paradosso, visto che siamo in un periodo di disoccupazione di massa. Questo paradosso va capito: da un lato, c’è la destra, che spinge fino al limite del ricatto perché tutti lavorino, anche a condizioni al ribasso rispetto alla norma del lavoro protetto dalle leggi. La destra vuole mettere tutti in attività, ma non creando la piena occupazione nel senso del moltiplicarsi del lavoro classico, perché è cosa impossibile. In altri termini, a destra l’obiettivo è la destrutturazione dello statuto dei lavoratori, rivedere al ribasso le garanzie. Stiamo tornando alla rappresentazone secolare del disoccupato come parassita, che bisogna far lavorare a qualunque costo, anche a quello di essere un lavoratore povero, fenomeno nuovo in Francia. Il valore lavoro viene messo in avanti per spingere all’accettazione del precariato. La campagna attuale si inscrive in questo contesto.
La sinistra mette altri contenuti nel valore lavoro propugnato anche da Royal?
Speriamo. Contro l’idea della destra, la sinistra parla anch’essa di restaurare il valore lavoro, ma associato a garanzie di sicurezza e protezione. Siamo in un momento di transizione, di fine del lavoro a vita: le situazioni più mobili, più frammentate dovrebbero venire associate a nuovi diritti legati alla persona del lavoratore, che dovrebbe goderne anche nei periodi di alternanza tra due occupazioni. Per il momento, il Ps e Royal non sono ancora chiari su questo punto. Certo, la candidata socialista ha parlato di securizzazione dei percorsi professionali, ma in realtà anche Sarkozy ne ha parlato: Sarkozy pensa a un contratto unico, che sarà molto al di qua, almeno all’inizio, di quello che dà oggi lo statuto del lavoro. Oggi, è più difficile proporre soluzioni di trent’anni fa. C’è stata una vera mutazione tecnologica, la concorrenza ha preso un aspetto più selvaggio e mondiale. I neo-liberisti rispondono: non possiamo farci niente, è la mondializzazione, c’è una regolamentazone troppo rigida del lavoro. Non esiste una soluzione miracolosa, ma uno sbocco va cercato nella securizzazione dei percorsi professionali, per trovare nuovi diritti, nuove protezioni, pur accettando la mobilità, anche la flessibilità. Dobbiamo ammettere che non è possibile tornare al capitalismo industriale, al compromesso che era stato raggiunto. Ora bisogna trovare la strada per addomesticare il mercato.
La paura della disoccupazione e della povertà sta giocando un ruolo nelle scelte o nei dubbi degli elettori, così come aveva contato nel «no» alla costituzione europea?
L’occupazione e le politiche sociali si sono costruite in un quadro nazionale, nel periodo che ha seguito la seconda guerra mondiale. Il welfare corrispondeva allo stato-nazione. Ma con la mondializzazione e l’europeizzazione degli scambi, lo stato-nazione ha perso molti poteri sul piano economico e ci sono ripercussoni sul piano dei diritti e delle garanzie sociali. Il «no» si spiega in parte con questa paura, così come il voto per Le Pen delle classi popolari. È cresciuto un discredito della politica.
Tutti parlano di lavoro, ma nessuno ha la formula per combattere la disoccupazione, che mina il tessuto sociale. E crescono i consensi verso un candidato di centro, François Bayrou, che nega la distinzione tra destra e sinistra…
Destra e sinistra non sono eguali di fronte alla questione lavoro. Ma se Bayrou vincesse, darebbe credito al’idea falsa che destra e sinistra pari sono. I rapporti di dominazione continuano ad esistere e di fronte ad essi ci sono due politiche. Bisogna rendersi conto del fatto che il nuovo regime capitalista non crea piena occupazione, a differenza del capitalismo industriale del dopoguerra, al punto che aveva fatto venire degli immigrati. La via d’uscita è creare attività che non siano occupazione. Non è un’utopia. Ci sono molti bisogni non soddisfatti. Era questa l’idea che c’era dietro agli impieghi-giovani di Martine Aubry, cioè che esistono bisogni non soddisfatti che il mercato non finanzia e dove lo stato può intervenire. Ma anche qui, i neo-liberisti hanno la loro soluzione: assorbire la disoccupazione creando precariato.
Non è molto ottimista, vero? 5 anni di presidenza, anche se Royal vincesse e avesse tutte le buone intenzioni, non sono pochi per realizzare questa svolta?
La strada è stretta, non sono molto ottimista : vengono fatti esempi, come quello danese, ma quella soluzione presuppone uno stato molto redistributivo. Mentre qui i governi di destra hanno abbassato le tasse. Però, non è irrazionale pensare che, in questo periodo di transizione, vengano ricercati dei nuovi modi di regolazione, per trovare un equilibrio relativo tra mercato e lavoro. Diciamo che la catastrofe non è necessaria. Il problema è che oggi i rapporti di forza non sono dalla parte dei lavoratori, dei sindacati, soprattutto a causa dela minaccia di disoccupazione. Le forze sociali in grado di imporre questo nuovo compromesso non sono chiare. Non c’è più la classe operaia, anche se questo non vuol dire che non ci siano più gli operai.