Il trionfo del particolare, la modernità secondo i contrattualisti

I liberali parlano spesso della crisi dei meccanismi della rappresentanza politica. La questione ricorre difrequente nel dibattito dei politologi, soprattutto in un paese come l’Italia. Da almeno vent’anni, fin da quando negli anni Ottanta le classi dirigenti hanno cominciato un meticoloso lavoro di smantellamento della cosiddetta Prima repubblica, la parola d’ordine è stata quella di fondare la legittimità delle istituzioni. Il maggioritario avrebbe dovuto spazzare via i partiti tradizionali e rafforzare l’esecutivo dei governi con un bagno di consenso plebiscitario. L’autorità del potere politico avrebbe tratto la propria legittimità dalla libertà degli individui di scegliere il candidato che meglio avrebbe difeso i suoi interessi.
E’ sufficiente un breve excursus come questo nella storia politica recente per comprendere come alcuni interrogativi fondamentali nascondano in realtà schemi e teorie già note al pensiero liberale. Ad esempio, la preoccupazione di limitare l’autonomia dello Stato affinché non intralci la libertà dell’individuo di perseguire i propri affari. Oppure di fissare la legittimità delle istituzioni sufficiente per tassare i proprietari. E lo “Stato minimo” che non deve interferire con il libero mercato? Tutti interrogativi che evocano, appunto, i momenti salienti della teoria politica nella modernità come dimostra l’ultimo studio di Alberto Burgio, Per un lessico critico del contrattualismo moderno (La scuola di Pitagora editrice, pp. 270, euro 15). L’idea dello Stato come semplice somma delle libertà individuali è il presupposto a partire dal quale il modello contrattualistico ha cercato di dare una risposta alle tensioni della società europea provocate dalla modernizzazione. Burgio misura la propria lettura direttamente sul confronto tra gli esponenti di questa tradizione, da Hobbes e Locke fino a Kant e Rousseau, presentando talvolta questi autori in versioni inedite.

Il dispositivo del contratto, al di là delle varianti e delle formulazioni intervenute nei diversi autori, si rivela un espediente teorico in base al quale i pensatori hanno immaginato lo Stato come il risultato di un patto reciprocamente vantaggioso tra individui. E’ da questa decisione che dipenderebbe l’uscita degli uomini dallo stato di natura – una condizione di guerra di tutti contro tutti, fra individualità sovrane – e l’ingresso nella società civile. Anche se, naturalmente, la narrazione del patto cela in realtà una metafora utilizzata dai filosofi per interpretare l’epoca storica di cui sono testimoni. Di che cosa è metafora la condizione di guerra che i teorici del contratto sociale presentano come “naturale”? «Lo stato di natura – spiega Burgio – non è altro che la metafora della crisi dell’antico regime e, più in generale, della società di status, caratterizzata dalla trasmissione ereditaria delle funzioni e delle posizioni di rango e di potere. La crisi è rappresentata (letteralmente: messa in scena) attraverso l’abolizione del confine tra società (ambito delle relazioni private, economiche) e Stato (sfera istituzionale, ambito dei poteri politici)». Lo stato di natura è metafora di una situazione storica in cui l’ordine politico esistente ha un deficit di legittimazione. E’ come se, in seguito a questa crisi, la comunità degli individui rivendicasse a sé tutta la sovranità.

Il passaggio successivo è quello della fondazione di un nuovo assetto statuale che dovrebbe nascere dalla cessione di sovranità a beneficio di diverse istituzioni. Ma la soluzione della crisi non può darsi senza tracciare un confine netto tra le prerogative dello Stato e la libertà dell’individuo, tra la sfera politica del generale e la sfera economica del particolare. Dalla crisi si esce – e si entra nel nuovo Stato – solo a condizione di salvaguardare l’autonomia degli individui proprietari. Non a caso, l’antropologia che sottende le diverse versioni del contratto corrisponde al modello dell’individuo isolato, egoista, ripiegato sugli interessi della sua proprietà. Sarà questo nucleo irriducibilmente passionale ed economico dell’uomo – così come descritto dai contrattualisti – a far percepire la fragilità costitutiva di ogni ordine politico. Persino un pensatore come Hobbes, di solito spacciato per un teorico dell’assolutismo e dello Stato forte, è presentato da Burgio – testi alla mano – nel ritratto insolito di un filosofo costretto a riflettere sulla debolezza della politica. «La politica non può avere la meglio sulla potenza primordiale (“naturale”) delle forze sociali, sulla loro capacità generativa (da cui la politica stessa sorge) e sugli sconvolgimenti che discendono dal loro esprimersi e modificarsi». Il contratto non mette la politica – e il nuovo Stato che sorge – al riparo dalle forze centrifughe degli individui, «il sovrano si scopre esposto alle conseguenze, agli urti, ai contraccolpi generati dalla natura (dalla natura umana, in primis). Limiti di fatto, certo. Ma (forse proprio per questo) inamovibili, indisponibili». Gli uomini sono viziosi per natura e la politica deve riconoscere la propria impotenza a modificare questa realtà antropologica.

Locke sottoscrive il principio dell’anteriorità dell’individuo, cioè l’idea della potenza della società rispetto al potere politico. «Ma declina questa idea in chiave particolaristica, sulla base della scomposizione della collettività sociale in una componente dotata di poteri e ricchezze e in un’altra priva degli uni e delle altre». Locke trasforma così il contratto in un dispositivo teorico che legittima il dominio di una parte sull’altra, dei proprietari borghesi su chi non possiede altro che la vita e il proprio corpo – Marx direbbe della «forza-lavoro».

Ma la “truffa” non dura a lungo. «Rousseau e Kant si fanno esecutori» del fallimento del contrattualismo, smontano l’idea che la collettività sia una semplice sommatoria degli interessi individuali. Saranno loro a smascherare l’inganno, che la sovranità moderna fondata sul contratto non salvaguarda i diritti di ognuno, e che dunque non è vero che la libertà comune sia libertà di tutti. Al di là delle metafore bisogna riconoscere «un problema politico e storico drammaticamente concreto, che sostanzia le critiche otto e novecentesche dell’universalismo borghese (a cominciare da Marx e da chi si rifà alla sua posizione): il ridursi del comune, del generale o dell’universale a maschera del particolare e del contingente, il divaricarsi tra le forme del riconoscimento giuridico e della rappresentanza e la realtà del lavoro e della nuda vita». Tra individuo e Stato non c’è passaggio automatico, tanto che Rousseau – altro ritratto insolito nella lettura di Burgio – distingue tra il consenso dei governati in balia dei propri interessi parziali (dell’individualismo proprietario) e la volontà generale delle istituzioni. O l’una o l’altra, sembra dire Rousseau con un atto teorico che sancisce il fallimento del contrattualismo – e dire che l’autore del Contrat social è noto come il teorico eponimo del contrattualismo! A meno che non si intervenga sull’uomo e se ne cambi la natura antropologica, “generalizzandolo”. Imponendo agli individui «un sentimento del bene comune forte al punto di indurli a definire in chiave sociale le proprie immagini dell’utile, dell’interesse, del valore». Anche Kant si muove nel solco della distinzione tra la volontà empirica degli individui e la volontà generale dello Stato. Non solo. Kant rafforza l’idea che debba intervenire una educazione dell’individuo affinché venga razionalizzato e colloca il processo educativo nella storia universale del genere umano da cui prenderà le mosse anche Hegel.

Ma c’è anche una valenza attuale. Quando Kant e Rousseau smascherano il marchingegno del contratto – null’altro che un espediente per legittimare l’individualismo proprietario, il darwinismo sociale, il dominio del più forte – offrono un insegnamento ancora valido. Cosa altro è il berlusconismo se non l’inveramento nella realtà di quanto già racchiuso nell’individualismo contrattualista? Tra le formulazioni della destra e le teorie di Locke non c’è molta distanza. «Lo Stato stesso nasce, di per sé, per iniziativa di “alcuni” singoli: è il frutto di una decisione presa da un gruppo indeterminato di individui, costituitosi sulla base dell’accidentale convergenza delle loro volontà e dei loro interessi privati… Sarebbe difficile esprimere in modo più nitido una concezione privatistica dello Stato, inteso in tutto e per tutto come un’impresa, fondata da individui accomunati da interessi e fini particolari. La logica mercantile dello schema contrattualistico ne risulta esaltata». Da qui a legittimare il primato del privato sul pubblico, del mercato sui vincoli solidaristici, della società civile sullo Stato, dell’economico sul politico – in una parola dell’uomo borghese, egoista, sull’uomo cittadino – il passo è breve.