Mentre Libano e Israele si riprendono dall’ultima guerra e le forze dell’Unifil prendono posizione, nella Striscia di Gaza la situazione si aggrava giorno dopo giorno e, contemporaneamente, in tutta la regione si intensificano le iniziative diplomatiche; due questioni strettamente legate alle problematiche forze che dominano l’area. Intanto, come a voler indicare una nuova fase nelle complicate relazioni tra Usa e Medio Oriente, l’ineffabile Condoleezza Rice annuncia per la prossima settimana una visita nella regione.
A Gaza, anche senza una escalation militare israeliana, la situazione è sempre più grave. Per sbloccarla forse bisognerebbe liberare il soldato Gilad Shalit, prigioniero dal 25 giugno scorso, ma non è semplice. Nel tentativo di disinnescare quella che viene vista come una bomba a orologeria, l’Egitto aveva negoziato con Abu Mazen, in segreto, la liberazione di Shalit. Il presidente dell’Anp stava contemporaneamente tentando di formare una coalizione di unità nazionale con il premier di Hamas, Haniyeh. Ma quando tutto era quasi pronto per la liberazione del militare, è arrivato il veto del leader di Hamas a Damasco, Khaled Meshaal.
Meshaal e l’ala radicale del partito islamista, con l’appoggio della Siria, non accettano le formule più pragmatiche a cui sarebbero disposti ad arrivare i leader della parte moderata del movimento. Formule che, implicitamente, rappresenterebbero un riconoscimento di Israele. Ma l’ala moderata di Hamas deve confrontarsi con i gravi problemi conseguenti al boicottaggio internazionale e allo strangolamento economico dell’Autorità palestinese.
Questa settimana a Ramallah gli impiegati pubblici palestinesi hanno manifestato contro il governo che non paga i salari. Uno degli slogan più significativi, che gridato in arabo fa rima, è stato: «Non vogliamo Haniyeh, che tornino pure i ladri (al governo)». I manifestanti hanno così apostrofato i leader corrotti di Fatah, ma hanno attribuito agli stessi la capacità di creare una situazione relativamente migliore, che per lo meno garantisca loro un misero salario.
Israele, contravvenendo agli accordi di Oslo, non trasferisce all’Autorità palestinese i soldi raccolti dalle tasse, ormai oltre 500 milioni di dollari. Facendo eco alla politica auspicata da Israele e dagli Stati uniti, anche la Comunità internazionale non fornisce ai palestinesi l’appoggio necessario per alleviare le loro sofferenze. E se in Cisgiordania la situazione è relativamente sopportabile, a Gaza peggiora sempre più, anche per le azioni militari israeliane che colpiscono infrastrutture essenziali: la conduttura elettrica è stata seriamente danneggiata dagli attacchi israeliani e l’assedio totale provoca enormi danni economici.
Il fallimento della trattativa su Shalit ha avuto ripercussioni anche sui negoziati per la formazione di un governo di unità nazionale palestinese. Per riparare ora si starebbero cercando canali segreti con il Qatar per definire la liberazione di Shalit e riaprire i giochi.
Il primo ministro Olmert ha annunciato che prossimamente incontrerà Abu Mazen, ma saranno solo parole se non si registrerà un cambiamento nella politica israeliana. Nell’ultima settimana sono circolate voci sull’incontro segreto di Olmert con un alto dignitario saudita e ciò porta a uno dei punti cruciali, che vincola anche la visita della Rice.
L’Arabia saudita e altri paesi arabi devono affrontare una situazione che percepiscono come minacciosa: sanno che Hezbollah non ha vinto la guerra contro Israele, ma temono l’enorme popolarità di cui il Partito di dio gode dopo la resistenza opposta alle truppe dello Stato ebraico. Ciò rafforza i settori fondamentalisti e intimorisce non pochi paesi arabi. Allo stesso tempo è chiaro che la «grande vittoria americana» in Iraq non è né grande né una vittoria: anche i servizi segreti Usa cominciano ad ammettere che il terrorismo cresce di giorno in giorno. Le vittime in Iraq si contano a migliaia e la situazione sta creando un vortice che minaccia la stabilità di tutta la regione.
Bush vede la sua posizione seriamente deteriorata e cerca di negoziare accordi che permettano di assecondare gli interessi americani nella regione. Diversi governi arabi hanno messo in guardia gli americani: la situazione attuale – non si stancano di ripetere – potrebbe far traballare non pochi governi. Così l’iniziativa saudita ci fa tornare a ciò che ripetiamo da anni: l’Arabia saudita aveva offerto a Israele la pace col mondo arabo in cambio di un ritorno alle frontiere del 1967, ma Sharon e gli americani hanno fatto di tutto per evitare questo «pericoloso» tentativo di fare la pace. Al contrario il governo israeliano intensificò la repressione e dopo, Sharon «uomo di pace» per Bush, assieme a una confusa e moderata sinistra europea portarono al famoso ritiro unilaterale: un passo che fu definito «formidabile», ma di fatto destinato a congelare qualsiasi serio negoziato di pace, che portò a un ulteriore deterioramento della situazione.
Il governo Olmert oggi è troppo debole per prendere reali iniziative di pace, deve riprendersi dai problemi di politica interna causati dell’ultima guerra. Intanto una criminale politica israeliana, con l’avallo internazionale, provoca la disastrosa situazione dei palestinesi di Gaza. Quando l’Italia decise di mandare le truppe in Libano, in una intervista ad Ha’aretz,il ministro degli esteri, Massimo D’Alema, disse che l’invio dei soldati poteva essere un precedente per l’invio di una forza internazionale nei Territori occupati. Una dichiarazione che certo non è piaciuta al governo israeliano, ma una continuità della linea italiana per migliorare la situazione sarebbe molto significativa. La questione del possibile invio di truppe non è l’unica. L’Europa deve scendere dal carro americano-isarealiano per sviluppare una politica che permetta non solo il ritorno dei negoziati, ma che renda possibile un immediato miglioramento della situazione a Gaza e in Cisgiordania. L’Italia e D’Alema, potrebbero avere un ruolo chiave nei negoziati con diversi paesi arabi e anche con il governo di Hamas.