Il terrorismo fuori dai cancelli

Che centra il terrorismo con le lotte sociali e sindacali? C’è un nesso, oppure un baratro, tra la mobilitazione radicale nelle fabbriche e nel territorio e la scelta della lotta armata? E ancora: c’è un automatismo tra il disagio sociale e l’arruolamento di giovani nel terrorismo? E’ difficile rispondere estraendosi dal contesto sociale, politico, culturale in cui tali domande vengono poste. Noi le risposte – parziali, s’intende, e magari contraddittorie – siamo andati a cercarle in un contesto speciale: i delegati e i dirigenti metalmeccanici del Veneto – Veneto bianco, Veneto leghista, Veneto «piccolo è un po’ meno bello». Veneto dove rispunta il terrorismo e bussa alle porte delle fabbriche. Quale migliore osservatorio di Padova, epicentro di quest’ultimo fenomeno e a due passi dalle basi americane di Vicenza, quella che c’è e quella che per fortuna non c’è ancora? Ci immergiamo nella Fiom nordestina e, più che scoprire, abbiamo la conferma di nuotare nel brodo di coltura della democrazia. Una democrazia fatta di partecipazione diretta dei lavoratori, di conflitto, qui la delega in bianco non esiste. Qui non esiste il totem del governo amico. Qui, tanto per anticipare il racconto, non si tollerano i nessi impossibili tra lotte radicali e violenza terroristica. Qui a nessuno accetta che una grande manifestazione come quella di Vicenza fa possa diventare, dopo la crisi di governo, come d’incanto un rimosso, qualcosa di cui vergognarsi.
15 iscritti alla Cgil arrestati, 4 indagati. Più della metà di coloro che sono finiti nell’inchiesta della magistratura, 10 per l’esattezza, sono iscritti Fiom. Operai metalmeccanici, insomma. Padova è ancora centrale. In questa città ci furono i primi omicidi firmati Br, nel ’74, vittime due missini. Sono successe molte altre cose all’ombra della basilica di Sant’Antonio. I teoremi padovani di calogeriana memoria, per esempio, che hanno corroborato la vicenda del 7 aprile. E poi l’autonomia operaia – che pure con gli operai non aveva molto a che fare, ci tengono a precisare i delegati meno giovani che conoscono bene la storia politica della città e, non essendo attratti dai facili teoremi, sono capaci di distinguere tra storie e processi diversi. Oggi ci sono alcuni centri sociali noti alle cronache. Ce n’è uno, il Gramigna, dove si incontravano alcuni degli operai arrestati e di cui due giorni fa il mattino ha pubblicato un calendario speciale: a ogni giorno dell’anno corrisponde un attentato terroristico, con commenti del tipo «il boia Moro viene condannato a morte dalle Br» in data 5 maggio.
A Padova la Fiom è un’organizzazione forte, radicata, in crescita come in tutto il Veneto, dove gli iscritti (la Fiom è diventato il primo sindacato scavalcando la Fim, storicamente maggioritaria in una regione in cui ancora oggi la Cisl ha più iscritti della Cgil) sono più di 28 mila su 200 mila metalmeccanici. Da quel maledetto giorno degli arresti ci si interroga nel sindacato e in fabbrica. «Gli operai – racconta il segretario padovano, Leonardo Mazzotta – ci dicono che siamo vittime, non complici del terrorismo». Questo concetto lo ripetono in tanti tra i delegati, che sono poi i sensori meglio tarati per raccogliere gli umori di fabbrica. In che senso vittime? Andiamo per ordine. La lotta sindacale, anche quando si fa dura e per sbloccare il contratto si è costretti a occupare i binari e le strade compiendo atti di «disobbedienza civile», si fa sempre «a volto scoperto e mani pulite», spiega il segretario regionale veneto Luciano Gallo. Si basa sul massimo di partecipazione democratica e l’avversario non diventa mai il nemico da abbattere ma l’interlocutore che difende interessi di parte opposti ai nostri, con cui tentare con ogni strumento non violento di firmare un accordo e di spostare più in avanti gli equilibri. La lotta sindacale, aggiunge Gallo, non chiama le forze dell’ordine «servi dei padroni». La preparazione e la realizzazione di un atto terroristico presuppongono la negazione dell’avversario, violano la vita, generano insicurezza e paura, tentano di bloccare la partecipazione popolare, insomma, «fanno arretrare i rapporti di forza colpendo i più deboli». «Atti di guerra e cultura di morte colpiscono per primo chi lotta per la pace, a Padova come a Vicenza». E come in Palestina, aggiunge un delegato padovano. Il terrorismo, ripetono tutti i delegati con cui parliamo, «si legittima generando il caos».
«Fiducia nella magistratura che per fortuna ha fermato l’organizzazione terroristica prima che colpisse». E avrebbe colpito, è ancora Gallo che parla, nel pieno del confronto tra sindacati, governo e padroni ai tavoli sulle pensioni, sulla flessibilità e la competitività. E a ridosso delle lotte per il contratto dei meccanici.
«Vogliono dimostrare che con le lotte sociali, in fabbrica o contro la base Usa non si ottiene niente per legittimare la loro scelta terroristica», dice un delegato di Padova. «Vogliono delegittimarci», aggiunge un secondo che insiste sulla necessità di non isolarsi dai lavoratori e dalla società. Bono, della Metos di Belluno mette in fila gli obiettivi a cui non si può rinunciare se non si vuole «cedere al terrorismo»: «via la legge 30, via la Bossi-Fini perché qui il leghismo lo conosciamo bene, io ce l’ho anche in fabbrica» e soprattutto, un contratto degno di questo nome: «i padroni i soldi ce li hanno, devono distribuirli a chi produce la loro ricchezza». E in tanti mi ripetono che «se chiediamo meno di quel che abbiamo ottenuto quando c’era Berlusconi, se andiamo sotto i cento euro d’aumento per gli operai di terzo livello, sai che ci dicono gli operai? Che siamo al servizio del governo amico». L’obiettivo delle lotte non è buttar giù il governo («siamo mica masochisti…) ma fargli cambiare politica. Giorgio Molin, segretario di Venezia, teme per il futuro: «Chi glie lo va a spiegare a un giovane che entra in fabbrica con 800 euro che è necessaria la moderazione salariale?».
Ma che c’entrano questi ragionamenti con il terrorismo? C’entrano per due ragioni – dice un delegato trevigiano – la prima è che se ci facciamo mettere sotto dalle accuse di complicità con il terrorismo abbiamo chiuso. Poi, se non si ferma il tentativo padronale di riprendere in mano il comando unilaterale del tempo e dei salari, si alimenta di disagio tra i lavoratori, già lasciati soli dalla sinistra. Bona ricorda i fischi di Mirafiori. Franco della Fip industriale riprende le parole di Gallo che metteva sull’avviso chi chiede alla Fiom di vigilare di più, controllare, indagare le persone. Il terrorismo lo possiamo battere essendo quel che siamo, rivendicando i nostri valori opposti ai loro, lottando per la democrazia, il contratto, con la gente, «con la nostra gente». Il terrorismo si può battere svelando e combattendo la sua linea politica, dice il segretario regionale, facendo la Fiom e non il Sismi. Franco teme le strumentalizzazioni che tutti denunciano, teme che la polizia sotto Prodi non sia così diversa da com’era a Genova sotto Berlusconi: «Non vorrei che una notte entrassero con le armi puntate in casa mia». Franco ce l’ha, come molti, con quell’informazione che «se ne fotte delle condizioni operaie e vuole solo dimostrare l’indimostrabile: che il terrorismo è nella Fiom».
Attenti alle semplificazioni. I centri sociali sono una cosa, e spesso camminano sulla stessa strada della democrazia e della Fiom. Altre volte no. Magari succede che una riunione Fiom venga sciolta prima della manifestazione di Vicenza contro la base per l’arrivo dei militanti di un centro sociale che vorrebbero farla da padroni. Ma il terrorismo è altro. Giampaolo, segretario Fiom di Vicenza, racconta dei tentativi di connettere protesta sociale e terrorismo. Racconta di un giornalista che gli chiede il nesso tra i due opposti visto che sul muro della fabbrica di batterie Fiamm , lungamente al centro di una lotta contro gli effetti della delocalizzazione, è comparsa una dicitura incomprensibile con la stella a cinque punte e la scritta «un altro mondo è possibile». Peccato che la stella brigatista «è recente, mentre la scritta è del 2001». Ecco che il terrorismo «fa il gioco dei nostri avversari, e come loro pretende di costruire nessi impossibili». Ma racconta anche che mentre in centro si svolgeva un’assemblea per organizzare la lotta contro la base, in un altro punto della città venivano distribuiti volantini dei Carc contro Epifani. Ma antagonismo (al terrorismo) fa rima con garantismo. Attenti alle provocazioni, contro la Fiom ce ne sono già state.
Il terrorismo esiste, tenta di entrare in fabbrica e a volte ci riesce. Ma ciò «non mi impedirà di dire no alla base» o di non condividere la scelta di Prodi (Gianpaolo). Scelta sbagliata (Gallo) nel metodo (l’editto in solitaria di Bucarest) e nel merito. Più delusioni arrivano dalla politica, più cresce la solitudine operaia. E di delusioni parla Vanni della Carraro, «solo il sindacato è in trincea, l’unico riferimento». E dice, come i compagni di lavoro degli arrestati, che il tentativo terroristico è caduto sulla tresta degli operai e dei delegati Fiom. Pensa che alla Cgil non convenga giocare per fini interni il terrorismo, contro la Fiom: «siamo forti e autonomi». Non fa giri di parole Gallo, denunciando la mancata solidarietà della Cgil quando Bonanni ha chiesto a Epifani di azzerare la Fiom. E chi chiede un congresso straordinario non conosce la Fiom, il suo orgoglio, un’identità rafforzata dal macigno che gli è caduto addosso.
Nessuno minimizza. Il terrorismo in Veneto è duro a morire. Bisognerà capire perché. Secondo il segretario generale della Cgil regionale, Emilio Viafora, forse dipende dal corto circuito tra estremismo cattolico e minoritarismo della sinistra. Forse.