Il teatro disturbante di Antonio Rezza

Il Teatro Out Off di Milano compie trent’anni. Oggi ha un nuovo spazio, ma la sua vocazione è rimasta invariata: accendere lampi e spirali sulla contemporaneità. E non è un caso che a preludio della stagione 2006-2007 sia arrivato, in prima nazionale, il nuovo spettacolo di Antonio Rezza, un artista indigesto al sistema produttivo e distributivo italiano che però all’Out Off ha sempre trovato ospitalità: l’anno scorso il pubblico milanese di Rezza, composto soprattutto di giovani che conoscono a memoria le sue sparatorie sceniche, ha potuto vedere di fila Pitecus, Io e Fotofinish. Quest’anno è la volta di Bahamut (in scena fino al 29 ottobre), uno spettacolo che evoca la zoologia fantastica di Borges indagando le possibilità più estreme del corpo. A prima vista, sembra una versione ridotta, quasi da camera, del teatro dell’artista romano. Ma a spettacolo finito, ci accorgiamo che per la prima volta Antonio Rezza ha lavorato sulla verticalità, perforando in altezza la scultura tascabile di Flavia Mastrella, sua inseparabile compagna di avventure estetiche. Come al solito, è dalla scena che si parte. E in questo caso è un bellissimo giocattolo, una scatola mobile attorno alla quale il corpo si sfinisce, in perenne disequilibrio rispetto ai suoni che pronuncia e ai movimenti che crea. Le linee di questa azzoppata, asmatica composizione molto agìta e molto urlata sono formate dallo stesso Rezza che, come un infermo, un incapace, o un reietto, viene sostenuto di volta in volta da due infermieri silenziosi (Armando Novara e Daniele Bernicchia). La sua condizione precaria non gli impedisce però di infierire sui due guardiani, espellendo contro di loro gli umori cattivi del despota. Si ride molto con Bahamut, perché nella totale assurdità delle situazioni è possibile riconoscere la disturbata contraddittorietà, la labilità gastrica di certi nostri stati d’animo, quando per esempio ci viene il bisogno di isolarci, e chiediamo un po’ di pace, salvo poi ritrovarci a pensare (come fa Rezza): «Ma che fate, ve ne andate tutti? Sono cose che si dicono quando uno è nervoso». Naturalmente, i brandelli di conversazione di cui è farcito il tessuto magmatico dello spettacolo vanno ascoltati come si ascolta un concerto di musica concreta. Si sa che a Rezza piacerebbe tanto rimanere incompreso perché il suo teatro lavora contro l’interpretazione («Io amo fare quello che non si può capire»). Eppure quelle azioni dissennate, le corse da animale angosciato e capriccioso, ci provocano sensazioni piuttosto precise. Non è difficile sintonizzarsi con lo scenario, costruito pezzo dopo pezzo, di un corpo che soffoca e strepita per le manipolazioni subite, agendo di volta in volta il fantoccio del padrone (travestito da proletario) o quello del consumatore. Vediamo i vanitosi camminare sui morti, e la merce lievitare sui brandelli dei nostri corpi, in una “danza di classe” che rivela non soltanto gli abomini del denaro ma anche le pretese di ogni autore che, immobile sul palco dell’io, si mette a denunciare abusi e soprusi (“L’autore è il male dell’opera”). Nella decostruzione del linguaggio che Rezza e Mastrella compiono davanti al pubblico, si compie un’azione di protesta. E dopo aver assistito al combattimento estenuato di Bahamut, ce ne andiamo a casa meno tranquilli. Ma con un’arma in più con cui picconare le ipocrisie e i tormentoni di chi ci vorrebbe tenere “buonini”, spettatori e attori di un teatro innocuo.
La stagione del Teatro Out Off prosegue con Studio su Medea di Antonio Latella (dal 2 al 12 novembre), Tre studi per una crocifissione di Danio Manfredini (ispirati ai racconti di un paziente psichiatrico, di Fassbinder e di Koltès: dal 16 al 18 novembre), e con l’Erodiade di Giovanni Testori nella visione scenica di Antonio Sixty (22-26 novembre), mentre negli stessi giorni verrà proiettato il film che Sixty realizzò qualche anno fa, Tartarughe dal becco d’ascia, una storia di guerra e false verità che esplodono durante un viaggio nel gelo.