Il sovrapprezzo del recidivo

Dice Durrenmatt: «non occorre che un giudice sia giusto». Ma occorre che sia umano? E’ suo dovere che la pena da lui inflitta ed eseguita sia umana, cioè proporzionata al danno arrecato e, al contempo, rispettosa della dignità del condannato e della prospettiva del suo recupero? La Costituzione e il giudice delle leggi (Corte costituzionale) rispondono affermativamente. Questo dovere vincola innanzitutto il legislatore, che non può creare norme che producono, attraverso la pena, danni ai diritti fondamentali del condannato sproporzionatamente maggiori rispetto ai vantaggi ottenuti con la punizione. Il legislatore merita quindi censura nei casi in cui non rispetti la razionale proporzione della pena rispetto al fatto e alle «personali» responsabilità del cittadino. Proporzione significa uguaglianza, nel senso che il legislatore deve curare che a situazioni uguali corrisponda un trattamento uguale e a situazioni diverse corrisponda un proporzionato trattamento differenziato.
Si è quindi fuori dai principi costituzionali quando si puniscono categorie di cittadini con una severità sproporzionata rispetto alla loro diversità e incompatibile con la prospettiva di un loro reinserimento sociale.
Appare quindi fondato il dubbio sulla legittimità costituzionale delle recenti norme che hanno incattivito la pena per i recidivi, limitando rilevanza alle circostanze che possono attenuarla.
Spiego meglio. In maniera opinabile si dà oggi prevalenza alla funzione retributiva della pena: il colpevole paga, attraverso la perdita della sua libertà, in proporzione alla gravità del reato che ha commesso. Per il recidivo, c’è un sovrapprezzo: deve pagare anche per l’appartenenza a una categoria, nei cui confronti si manifesta una volontà distruttiva di dimensione irrazionale, oltre che disumana. Questa sommatoria del prezzo che essi pagano per quello che fanno e del prezzo che pagano per quello che sono crea una sproporzione della pena rispetto al fatto e alle «personali» responsabilità, assolutamente vietata secondo la Corte costituzionale. Un furto al supermercato può costare al colpevole tre mesi di reclusione, ma per il recidivo il prezzo non deve scendere al di sotto dei sei mesi, perché per lui le circostanze attenuanti hanno perso peso. Ed è così per tutti i reati.
Il Tribunale di Ravenna ha condivisibili dubbi sulla correttezza costituzionale di tanta diversità e sul limite,imposto al giudice di valutare le circostanze favorevoli all’imputato. Questo limite porta a «un appiattimento del trattamento sanzionatorio per situazioni che potrebbero essere assai diverse e potrebbe imporre l’applicazione di una pena manifestamente sproporzionata e irragionevole, l’espiazione della quale non consentirebbe una rieducazione del condannato».
Sulla risposta della Corte costituzionale può sicuramente incidere la diffusione tra i giudici del dissenso per questo tipo di leggi. Il dissenso trova autorevole fondamento anche nell’antica e nobile posizione della scuola classica di diritto penale che riuscì a imporre nella legislazione del XIX secolo il principio «secondo cui si giudica dei fatti e non di uomini». Questo principio era condiviso, nel 1967, dall’attuale ministro dell’interno Giuliano Amato, autore del bel libro Individuo e autorità. Ci possiamo attendere coerenza e fedeltà al proprio pensiero o, quantomeno, il non ritorno ai «pacchetti sicurezza», con cui il passato governo di centro-sinistra ha iniziato a peggiorare il nostro ordinamento.