E’ pretestuosa la polemica che rimprovera a Romano Prodi di venir meno al mandato europeo scrivendo il manifesto dei riformisti italiani. Esso non fa che tradurre, in termini meno causidici e con una certa passione, quel che la Commissione e la Convenzione pensano e suggerirebbero a ogni paese d’Europa, all’Irlanda come alla Germania. Prodi lo suggerisce all’Italia, è il suo “sogno”, e l’intero centro-sinistra sembra riconoscervisi, anche se incorreggibilmente si arrovella più sul leader che sui contenuti. E la stampa non vi ha annotato più che gli accenti, a dir la verità insistiti, sul pluralismo dell’informazione, critici verso il sistema berlusconiano. E’ questa ricezione passiva a far impressione, assieme allo sguardo placido e sicuro che il manifesto rivolge sul prossimo futuro.
Proviamo a esaminarlo.
1 Si direbbe che Romano Prodi non si sia accorto che dal 1945 non ci trovavamo in una situazione altrettanto bruciante. Il 2003 è stato un anno terribile e non è finito. Siamo in una guerra che arde nel Medio Oriente ed espone tutti i paesi a un’azione terroristica senza precedenti. Vien voglia di rubare il titolo che Walter Benjamin aveva dato negli anni venti a un suo saggio premonitore: Pericolo di incendio. Prodi è invece imperturbabile. Così grande gli appare l’evento di un’Europa – il continente già più rissoso del mondo – che ha cessato da oltre sessant’anni di farsi guerra, che neppure accenna alla guerra infinita, all’occupazione militare dell’Afghanistan e dell’Iraq e alla guerriglia sempre più aspra che continua nell’Iraq, nella quale in questi giorni anche il contingente italiano ha avuto le prime vittime. Ricorda di passaggio il terrorismo internazionale ma non che l’invasione americana non lo ha, come era prevedibile, messo fuori combattimento e ormai minaccia tutti gli alleati degli Usa in questa impresa. Sulle radici della crisi del Medio Oriente, che ci è così vicino non solo geograficamente, il manifesto non si sofferma, come se l’aver raggruppato nello spazio di un solo mercato una popolazione, che è più del doppio degli abitanti degli Stati Uniti e il cui interscambio è pari a quello degli Usa più l’intero Sud Est asiatico, ci rendesse extraterrestri. Si limita a dire che questa super regione anela alla pace e parlerà al mondo con una sola voce.
Quale? L’Europa è il luogo dove quest’anno l’Occidente si è diviso sulla questione primordiale della guerra. Della quale, come il progetto di Carta costituzionale, Prodi non ritiene opportuno di far proprio quel ripudio che sta nella Costituzione italiana. Non è un silenzio innocente, considerando che dal 2002 gli Stati Uniti sono passati sopra mezzo secolo di almeno formale multilateralismo per procedere da soli al governo del pianeta. Del quale hanno dichiarato lo “stato di emergenza” che è, schmittianamente, l’atto proprio della sovranità.
Con tutte le conseguenze. Dichiarato atto di guerra l’attacco terrorista dell’11 settembre, gli Stati Uniti ne hanno derivato tutti i poteri del presidente, incluso quello di rispondere con la guerra. E considerano attaccante, con una innovazione gigantesca nel diritto, ogni paese che della rete terroristica possa essere considerato non solo un mandante ma un asilo. Hanno disegnato così una presenza occulta dall’incerta identità e confini – il Male, il terrorismo in genere, l’islamismo, il detenere armi di sterminio di massa. Hanno indicato altri cinque “stati canaglia” sui quali intervenire e hanno attacato l’Iraq; questo non appariva legato ad Al Qaeda ma avrebbe detenuto armi di sterminio di massa. E quando si è constatato che non ne deteneva affatto hanno deciso che ogni dittatura costituisce in sé un pericolo per il mondo, per cui le istituzioni democratiche vanno esportate anche con le armi. Tesi audace che con l’Urss non era stato possibile applicare, per l’equilibrio di forze esistente: l’equilibrio del terrore. Il corollario è stato che la potenza democratica per eccellenza, gli Stati Uniti, è tenuta a mantenere irraggiungibile la sua forza militare, e a bloccare qualsiasi paese tentasse di costruirne una analoga. Capitolo che, oggi come oggi, sembra riguardare soltanto la futura Cina.
L’Europa è stata presa di contropiede dal documento sulla new strategy che nel settembre 2002 enunciava queste tesi e ha tentato di ignorarlo. Così fa il manifesto di Prodi. Tanto più che le Nazioni Unite non hanno dato un via all’invasione dell’Iraq: gli Usa venivano messi in minoranza nel Consiglio di sicurezza. Da chi? Da Francia, Russia, Cina e alcuni paesi minori, trainati dalla decisione francese all’interno del Consiglio e all’esterno dalla Germania. L’alt insomma è venuto dall’Europa. E così gli Stati Uniti lo hanno recepito, non senza attaccare furiosamente il continente come vecchio e usurato. Non si era mai data una rottura simile. Dopo il 1945 le divisioni erano tutte fra Est e Ovest: quest’anno si è diviso l’Occidente.
Ignorare questa infernale sequenza che si è sviluppata sotto i nostri occhi è quel che fa il manifesto di Prodi. Che se la cava maldestramente alla fine con una affermazione di indefettibile amicizia fra Europa e Stati Uniti e di fedeltà alla Nato. Ammesso che la carica istituzionale che egli ricopre ancora in sede comunitaria gli renda impossibile parlare a nome di tutti, che significa in concreto la «voce unica che da domani in poi l’Europa parlerebbe?». Questa che uscirebbe da una maggioranza qualificata dei quindici o dei venticinque, metodo per il quale il leader della Commissione si batte strenuamente? Nell’Europa dei quindici la maggioranza avrebbe votato contro la guerra, in quella dei venticinque forse no – e, infatti, gli Stati Uniti hanno premuto per l’allargamento. Ma non è un problema di numeri.
E’ un problema di identità, ben più cogente della polemica sulle radici europee che ha riempito le gazzette.
Quel che Prodi forse non poteva fare è stato ben contento di non fare il centrosinistra italiano, perché il manifesto gli lascia la libertà delle scelte erratiche che gli sono proprie sulle questioni internazionali dalla guerra del Golfo in poi. E’ stata in questa che sono state deposte le uova del serpente – fu profetica allora la presa di posizione di Ingrao e Dossetti. Possibile che il partito riformista italiano continui a nascondersi dietro la ricerca di una copertura delle Nazioni Unite? Che per esso la guerra andrebbe benissimo se benedetta dal Palazzo di vetro? Che abbia accolto con sollievo il voto sulla presenza dell’Onu in una ricostruzione che è soltanto il tentativo, ahimè riuscito, da parte del Dipartimento di Stato di coinvolgere le Nazioni Unite in un dopoguerra iracheno, che è diventato una trappola infernale? Neppure dopo il tristissimo lutto dei nostri primi morti, il centrosinistra ha avuto il coraggio di dire “basta”.
Ma più grave di una mossa, che può anche essere contingente, è la mancanza di un’autonoma ipotesi sulle tendenze mondiali in atto. Non siamo in presenza di una delle molte crisi della guerra fredda, all’ultimo momento evitate dall’equilibrio del terrore. Siamo a un precipitare della situazione mondiale, prodotto dagli interventi di più di una amministrazione americana in Medio Oriente e aggravata da George W. Bush. Può darsi che se Bush cade alle elezioni dell’anno prossimo i democratici mutino rotta, anche se non sarà semplice – non lo fu neanche per Kennedy col Vietnam – smontare il congegno bellico. E il frutto più avvelenato della guerra simmetrica, il terrorismo, sarà ancora più diffuso. Così come si è incancrenito il conflitto fra Israele e Palestina, che alcune anime belle del centrosinistra davano senz’altro per risolto dall’intervento americano nella regione e che Prodi affida ancora alla logora Road Map. Il “riformismo” sembra singolarmente senza testa, senza un’analisi e senza una volontà.
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2 Quanto è vago sulla posizione internazionale, tanto il manifesto di Prodi è netto sull’Italia che vorrebbe. Qualche tempo fa in uno show de La 7, Bruno Magni, segretario della Cisl negli anni ruggenti, osservava: «Più che discutere di chi sarà il leader dei riformisti, mi preoccupa sapere che faremo se vinciamo». Ora Prodi gli ha risposto.
La sua è una precisa idea dei meccanismi essenziali di un sistema politico e sociale che non è difficile trasformare in programma, le cui linee stavano già nel governo del 1996 e che completa l’adeguamento dell’Italia, già laboratorio sociale del continente, in un sistema dove il mercato è re.
Prodi è una persona onesta e si vieta l’ipocrisia. L’aver cominciato la costruzione dell’Europa unita definendo uno spazio di libero scambio di capitali, persone e merci, l’essersi dati una moneta unica e di conseguenza una banca centrale e dei trattati vincolanti in tema di bilanci statali, non è stata una pensata da “banchieri”, e tantomeno un errore, perché si sarebbe dovuto cominciare dall’unificazione politica. E’ stato – egli afferma – il solo percorso realistico che avrebbe costretto paesi tanto divisi da storia e cultura a una unificazione anche politica appena se ne fossero date le condizioni. Era insomma una “idea di società” ben chiara alle menti degli statisti cattolici, da Adenauer a De Gasperi.
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Prodi non lo dice ma fa proprio un liberismo spinto, nel quale l’intervento dello Stato in economia è proscritto come turbativa del mercato. Il cui primato considera non so se la causa o il frutto dell’economia globalizzata. E, infatti, la Commissione piomba come un falco su ogni tentativo di sostegno pubblico anche alle imprese considerate strategiche o contro la disoccupazione. Sono ritenuti interventi “protezionisti” sui quali anche Prodi lascia cadere una sanzione spietata, più gravi per la crescita di quanto non sia la caduta dell’occupazione o il ritardo della ripresa.
Romano Prodi resta naturalmente un cattolico, ma rassegnato al primato dell’economico sui pur conclamati “valori”. Perciò anche il suo manifesto considera il lavoro come mero strumento della produzione, e pur spendendosi nell’affermazione che esso è una questione di vita, di vite, lo subordina alla crescita: perché l’occupazione cresca deve crescere la produzione, perché la produzione cresca i diritti del lavoro non hanno da irrigidire il mercato. Neanche è pensabile che un governo nazionale o continentale possa dunque porsi come primo obiettivo il pieno impiego o una certa qualità di Welfare; neanche è immaginabile una qualche omogeneizzazione continentale di salari e pensioni. Se qualche cosa ha una priorità è la «crescita nell’ambito del mercato», che è trainata dall’impresa. Ad essa si aggiunge, e in certi punti sembra perfino sorpassarla, l’ambiente, la cui conservazione è garanzia di crescita futura invece che di miope dissipazione delle risorse.
E’ perfino con qualche candore che il professore spiega come si tratti di difendere «i lavoratori, non il posto di lavoro», vale a dire la quota di salario che risulta dalle necessità dell’insieme delle imprese e cui il singolo può accedere saltando dall’una all’altra, giacché fa parte della natura del mercato globale che esse appaiano e scompaiano, si fondano o si frammentino incessantemente – se lo ricordino quelli di Arese. Alla stessa stregua difende il Welfare, ma sempre nell’ambito di ciò che il mercato consente nella globalizzazione, che, si voglia o no, mette sulla stessa piazza, senza bisogno di dumping, prodotti a costo sociale più basso nei paesi poveri. Prodi capisce la tragedia dei milioni di persone costrette ad emigrare ma l’immigrazione ha quindi da essere regolatissima, le quote vanno stabilite non sulla base dei bisogni di chi lascia il suo paese ma su quelle delle imprese nei paesi di accoglienza e si ha da essere severi con i clandestini (nella proposta di Carta costituzionale si dice senza più eufemismi che ha diritto di entrare in Europa chi ha già un contratto di lavoro).
E’ un’idea di società che declina presto nell’astrazione contabile. La società è un libro mastro nel quale le uscite dipendono dalle entrate e queste dipendono dal mercato. Che non permette costi sociali improduttivi, nel senso di non mercificabili. Per cui la sincera intenzione solidale di Prodi non può dar luogo che a una specie di tassazione dell’anima al posto della spesa sociale, perché solo in termini morali ai deboli vanno compassione e cura. Non ci sono più diritti di tutti ma assistenza a chi non ce la fa in una società sempre disuguagliante. Perfino iniqua, scrive Prodi, e propone che venga istituito un reddito minimo di sussistenza che, sembra di capire, somiglierebbe al francese Rmi, reddito minimo di inserimento, miserando e poco funzionale perché chi non si inserisce entro tre anni diventa altra cosa, un assistito ancora più miseramente. Una protezione sociale ha da venire, aggiunge, anche dai servizi di pubblica utilità la cui gestione da parte dei privati non è detto sia quella che meglio li assicura.
Questo è quanto, e in gran parte già fatto. Due cose mancano all’edificio europeo, del quale l’Italia non può essere che un frammento, ma decisive. Una legislazione fiscale comune se no come controllare i bilanci? E un congegno istituzionale che renda operativo il progetto d’assieme. Non una faticosa mediazione che concerti regole comuni per tutte le pieghe del sociale, non a caso lasciate ai singoli Stati, ma un apparato di rapida decisione, simile a quello degli Stati Uniti, un motore centrale limitato nei campi di intervento ma in quelli veloce e assoluto. Un sistema presidenziale? Non è esplicitato. Certo non può essere un’istanza rappresentativa che decide all’unanimità: l’unanimità è terreno di coltura dei nazionalismi e, in economia, dei protezionismi. La complessità ha bisogno di redini che si possano tenere strette, e il corso delle cose – quello che ha già portato a gran parte della realizzazione della sognata Europa – si occuperà di aggiustare progressivamente le differenze.
E qui si tocca un punto delicato. Prodi vede la crescente disaffezione alla politica e la crisi della rappresentanza. Come conciliarla con una verticalità delle scelte di fondo? Non lo dice, come non fa parola delle riforme oggi in discussione in Italia, e sulle quali sembra d’intravedere qualche rinnovato tentativo di accordo fra maggioranza e opposizione. Si affida però non solo ai partiti, ai quali non può rinunciare, ma ai corpi intermedi cari all’associazionismo cattolico, nei quali si realizzerebbe la partecipazione dei cittadini. E’ in questi e nei partiti che dovrebbe ridelinearsi una dialettica politica, che egli naturalmente non chiama conflitto ma della quale riconosce che sarebbe grave la perdita. Restano, infatti – reso cadavere il comunismo -, le «grandi famiglie ideali» europee, anche se sono vecchie e se il mondo cambia. Domani saranno diverse. Oggi è importante unificarne i grandi tronconi, fine cui tende anche questo manifesto. E va da sé che esse competeranno in un sistema elettorale maggioritario.
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3 E’ un testo che va letto. E’ steso di getto non da una mano burocratica. Rispetto alla linea di Berlusconi, quella di Prodi tende a rendere ordinato e controllabile uno spazio assolutamente liberista, ma non più così pieghevole agli interessi di una persona o di un gruppo. Il mercato va regolato perché funzioni meglio, non perché possa essere limitato o sottoposto alle priorità della politica. Questa lo garantisce, non lo subordina. Il come della coesione sociale è lasciato agli Stati più capaci di una tattica ravvicinata di mediazione, che in nessun caso può interferire nella libertà delle imprese e degli scambi, soli garanti della crescita. Sempre rispetto a Berlusconi, Prodi accentua il dovere della solidarietà anche se non più attraverso i diritti di tutti, ma affermando l’impossibilità morale di ignorare i poveri. Le divergenze più forti col berlusconismo restano sul pluralismo dell’informazione, diventata braccio strategico della globalizzazione, e nella riaffermazione dell’indipendenza della magistratura.
Chi si colloca alla sinistra del centro-sinistra farà bene a leggere questo testo. Perché la sua debolezza e la sua forza poggiano su tendenze potenti e non facilmente esorcizzabili. La debolezza maggiore sta, come si è detto, nella mancanza di una linea sulla scena mondiale, mancanza fin grottesca in una fase di precipitazione di guerre, terrorismi, instabilità e crisi del diritto internazionale. La prima posizione da prendere è dunque su questo. E non può limitarsi a un “no” di pur grande valore morale alla guerra, a dichiarazioni di una non violenza che non indichi interventi alternativi, alle marce pacifiste, peraltro impressionante dal poco esito che hanno avuto nel tentativo di impedire la guerra all’Iraq.
Come intervenire contro Bush senza farsi fermare dall’accusa di antiamericanismo? Non solo l’Europa di Prodi ma il socialismo europeo balbettano, quando non parlano come Blair. Come agire nella crisi del Medio Oriente? Esso è stato reso una polveriera dall’intervento militare degli Stati Uniti, ma non si può ignorare che la fine di una presenza laica e progressista sancita da un ritiro ideale dell’Urss, che risale a molto prima del 1989, ha lasciato il campo a fondamentalismi che segnalano una crisi profonda di civiltà. Lo stesso terrorismo ne è effetto, se no non lo avrebbero prodotto neanche la guerra asimmetrica e la deregulation dei rapporti internazionali, con i quali dopo il ’45 si era cercato di civilizzare i conflitti. L’assenza dell’Europa, la mancanza di un’idea e pressione delle sinistre europee è una colpa. Insomma una critica al centro-sinistra nel 2003 deve dotarsi di analisi e proposte che vadano oltre gli slogan o i deboli discorsi, che oscillano dall’inevitabilità di uno scontro di civiltà all’accarezzamento delle differenze. Ci sono almeno trent’anni di ritardo da recuperare, e il tempo non gioca per la pace.
Lo stesso va detto sull’idea di società che è in atto e che il manifesto di Prodi perfeziona. La sua forza è quella di poggiare su un senso comune che si è venuto formando fin dagli anni ottanta – e cui non è estraneo il crollo dell’Urss e dei partiti comunisti -, convinto di una ormai fatale priorità dell’impresa, e che misura sul metro del successo economico sia il fine della società sia quello della persona.
Qui è avvenuta una trasformazione che è vano ignorare, la sua ampiezza si rileva nel relativo isolamento, che per un momento Cofferati pareva avere sfondato nel sindacato più forte del mondo, il nostro.
Non sarà semplice ricondurre nel contesto del mercato globale e dei trattati europei gli obiettivi classici del lavoro: il pieno impiego, la non precarietà dell’occupazione, i diritti, la previdenza. Significa invertire l’asse su cui marcia il continente. E per questo occorrerà un disegno argomentato e una capacità di alleanze continentali, sapendo che si tratta anche di andare a una redistribuzione delle risorse che lede interessi consolidati. Il mutare impaurito ed egoistico dell’opinione, la sempre minor fiducia nell’azione collettiva, hanno radici più lontane dei neo-conservatori e di Berlusconi.
Non è finita la dominazione di classe, anzi da tempo non era virulenta come adesso; è finito il diffuso considerarla un’ingiustizia; è finita, salvo poche avanguardie, la dialettica di classe. Il soggetto più esposto è la Cgil, che cesserebbe di esistere come tale se rifluisse nel grande sindacato che sogna Romano Prodi, rinnovato, concertante, gestore bilaterale del lavoro assieme al governo. Non basterà insomma, per chiudere con una battuta un discorso da sviluppare altrove, un cambio di maggioranza, preliminare e indispensabile per abbattere la Legge 30. Il manifesto di Prodi è eloquente.