Il sogno della Bolivia

Domani si vota nel paese andino e dopo cinquecento anni di dominio «bianco» un indio potrebbe diventare presidente della ricchissima ma poverissima nazione. E innescare un nuovo effetto-domino in tutto il continente. I sondaggi dicono che Evo Morales ha la maggioranza. E sarà difficile inventare esiti diversi

I 4000 mila metri dell’altipiano andino, quando si atterra all’aeroporto di El Alto con davanti l’imponente cono innevato del vulcano Illimani, dànno spesso delle allucinazioni. Ci vuole tempo perché rimedi naturali, come il tè alla coca negli alberghi agli stranieri ansimanti e stralunati – o chimici, come le pillole frettolosamente comprate alla prima farmacia, facciano qualche effetto sul soroche, il mal d’altitudine. A queste altezze, anche dopo essere scesi ai 3600 metri dell’imbuto al cui fondo giace La Paz, le allucinazioni possono fare scherzi strani. Ad esempio possono far credere di essere saltati per incanto avanti di un anno, al dicembre 2006, e, sotto gli effetti dell’ennesimo tè alla coca, di sedere in una panchina della plaza Murillo, qui a La Paz. Il palazzo giallo ocra del parlamento su un lato, su un altro la massiccia cattedrale con la targa ricordo delle visita del papa polacco e il Palacio Quemado in stile rinascimentale italiano, sede del presidente della repubblica, con davanti il lampione in cui il 21 luglio del 1946 fu impiccato il colonnello Gualberto Villaroel. Oggi sotto il lampione c’è il busto di quel presidente nazionalista che fu trascinato fuori da una turba conservatrice-stalinista, con incise le parole che probabilmente gli costarono la vita: «No soy nemigo de los ricos pero soy mas amigos de los pobres», e un’altra frase allusiva: «No fue en vano…».

Chissà se la storia è andata proprio così, il palazzo sia stato bruciato e il presidente Villaroel linciato davvero perché era troppo amico dei poveri e troppo poco dei ricchi. Però, nel dicembre 2006, almeno quel rapido accenno – «non fu invano» – ha assunto finalmente un senso compiuto: nel Palacio Quemado oggi, da quasi un anno, siede il primo presidente indio in quasi due secoli di indipendenza e in parlamento fa più sensazione il doppiopetto con cravatta dei deputati bianchi che i ponchos, i bombín e le polleras. Il presidente dalla pelle scura e i marcati tratti di indio è Evo Morales, antico leader cocalero delle valli tropicali del Chapare, i ponchos, le buffe bombette e le ampie gonne variopinte sono i simboli orgogliosamente sfoggiati dai deputati e deputate di etnia aymara, quechua e tupí-guaraní. La nuova o meglio vecchia Bolivia, per il 70% almeno abitata da popolazioni indigene, che per la prima volta è arrivata al governo.

Ci sono voluti 180 anni. Da quando, nel 1825, i libertadores Bolívar, Sucre – che hanno le loro dovute statue equestri lungo l’avenida 16 de Julio – e Santa Cruz – che ha la sua tomba a fianco della cattedrale guardata da soldatini indigeni con pompose divise dell’800 – proclamarono l’indipendenza dell’«Alto Perú» dalla Spagna. Quasi due secoli in cui i quechua e gli aymara non sono stati altro che carne da cannone per la Guerra del Pacifico con il Cile nel 1879 – in cui la Bolivia perse l’accesso al mare e il rame della pampa di Atacama – e per la Guerra del Chaco con il Paraguay negli anni 30 del secolo scorso. Guerre combattute, e perdute, per conto terzi: i padroni inglesi delle industrie del salnitro la prima, i padroni anglo-americani della Shell e della Esso la seconda. Carne da cannone per guerre aliene e braccia a perdere per le miniere dei signori dello stagno, i Patiño, gli Hochschild, gli Aramayo.

Prima l’argento di Potosí, spolpato dai conquistadores spagnoli nel ‘500, di cui non è rimasto nulla se non i buchi vuoti sul Cerro Rico e la frase «vale un Potosí» a ricordo dell’antica richezza. Poi il salnitro, l’oro bianco di allora, e il rame, l’oro rosso che ha fatto la fortuna (e la sfortuna) del Cile. Poi il petrolio, l’oro nero. Poi la coca, la sacra foglia con dentro il suo richiestissimo alcaloide. Poi, più di recente, l’acqua, il nuovo oro bianco di oggi e di domani. Infine il gas, l’ultima ed enorme ricchezza rimasta, che fa della Bolivia «lontana e sola» un osso ancora da rodere.

La storia della Bolivia è la storia di un saccheggio che ha pochi paragoni. Un paese ricchissimo che è uno dei più poveri del mondo. Tanto povero da meritarsi l’abbuono di una parte dei 5 miliardi di dollari del debito estero, a patto che, come aveva detto un anno fa (siamo nel dicembre 2006) alla vigilia delle elezioni il direttore del Fmi, Rodrigo Rato, ex ministro spagnolo di Aznar, sappia mantenere «la stabilità macro-economica degli ultimi anni». Cioè quella stabilità che l’hanno resa uno dei 20 paesi più poveri del mondo.

Sotto l’effetto allucinogeno del soroche e del tè di coca, nel dicembre del 2006 sarebbero tornate alla mente le parole di una donna di servizio indigena alla sua signora nella casa di San Miguel, uno dei barrios ricchi in fondo al cratere di La Paz – una città in cui al contrario di quasi tutte le altre nel mondo i poveri abitano in alto e i ricchi in basso – 3 o 400 metri più sotto, dove la vita è dolce e anche la temperatura più mite. Alla vigilia del voto del 18 dicembre del 2005 la signora le aveva chiesto se l’indomani sarebbe andata a votare, e per chi: «Certo che ci vado – le aveva risposto la empleada – perché per la prima volta c’è un boliviano per cui posso votare».

Persistendo l’allucinazione dell’altitudine, se nel dicembre del 2006 sulla panchina di Plaza Murillo si apre un giornale, si può rimanere sorpresi da come sia cambiata non solo la Bolivia ma quasi tutta l’America latina in così poco tempo. Evo Morales, il primo indio in Bolivia; Michelle Bachelet, la prima donna, in Cile; l’ex-colonnello etno-nazionalista Ollanta Humala in Perú; il «populista» (il peggior insulto ai tempi del neo-liberismo) López Obrador in Messico; un Lula rinsavito in Brasile; un Daniel Ortega resuscitato in Nicaragua; un altro presidente indio e non come Lucio Gutíerrez in Ecuador; Chávez per altri sei anni in Venezuela…

Un quadro sconvolto del continente che va dal Rio Grande alla Terra del fuoco, fino a poco tempo fa il paradiso del libero mercato e del Consenso di Washington.

Finalmente ritornati in sé, al dicembre 2005, i contorni si fanno più chiari. Domani si vota in Bolivia e intanto si vedrà cosa succede qui. Poi, nel corso dell’anno, ci saranno il ballottaggio in Cile e le elezioni a Haiti, in Costa Rica, in Colombia, in El Salvador, in Perú, nella Repubblica Dominicana, in Messico, in Brasile, in Ecuador, in Nicaragua, in Venezuela. E all’inizio del 2007 nell’Argentina di Kirchner a cui magari potrebbe succedere la signora Cristina.

Da qui a un anno, allucinazioni da soroche o no, l’America latina potrebbe essere molto diversa da quella che è stata negli ultimi vent’anni e anche da quella che è già oggi. E questo agita i sonni di Washington, sponda Casa bianca e sponda Fmi. Se o domani o in gennaio in Bolivia vincesse Evo Morales potrebbe innescarsi un effetto domino difficile da fermare. I sondaggi dicono che il leader del Movimiento al Socialismo non toccherà il 50% ma si attesterà intorno al 32-35%, troppo poco per essere eletto subito. Ma se il suo avversario di destra, il bianchissimo e americanissimo Jorge Tuto Quiroga (Alca, «coca zero»…), gli resterà indietro di almeno 5 punti sarà difficile che in gennaio il parlamento a cui spetterà nel caso la nomina del presidente, scelga qualcun altro che non sia Evo. Difficile se non impossibile non solo per la vecchia oligarchia bianca, che in questi giorni trema per la paura e per la sua cattiva coscienza, ma anche per mr. Greenlee, l’ambasciatore americano di turno che qui viene chiamato sempre e solo «il viceré».

Se non è difficile prevedere che un governo Morales avrà vita dura – a cominciare dalla decisione sulla nazionalizzazione del gas – è ancor più facile prevedere che un governo Quiroga avrà la vita impossibile come l’ha avuta Sánchez del Lozada, «el gringo» ora profugo a Miami. In queste ore risuonano le parole di un senatore indio del Mas: «Evo sarà presidente por las buenas o las malas». Meglio per tutti che sia con le buone. E non chissà quando: «ahora es cuando», come dice lo slogan della campagna di Morales. Adesso è quando.