Il socialismo alla prova del gulag. Tanti drammi per un simile risultato?

Stalin mostro sanguinario o politico realista costretto dalla storia a scelte obbligate? Nel suo ultimo libro ( Stalin. Storia e critica di una leggenda nera , con un saggio di Luciano Canfora, Carocci, pp. 382, euro 29,50) Domenico Losurdo opta per la seconda risposta. E’ una tesi controcorrente e già per questo il libro è da leggere: opponendosi al “senso comune” prevalente fa pensare e induce a problematizzare ipotesi storiografiche che si danno ormai per acquisite.
Quale è l’idea di fondo di Losurdo? Le tesi interpretative del fenomeno staliniano che più hanno inciso – Trockij, Chruscev, Hannah Arendt – sono state determinate dalla lotta politica interna al campo comunista o dalla Guerra fredda. Da qui un «ritratto caricaturale» di Stalin che sottovaluta radicalmente il contesto concreto del suo operare. In questo contesto l’autore fa rientrare non solo la “lunga durata” della storia russa (i conflitti medioevali nelle campagne, l’odio per gli ebrei, il banditismo nato dalle carestie), non solo lo “stato d’eccezione” in cui si collocò l’esperienza sovietica, ma anche i lati deboli dell’ideologia marxista, un «universalismo incapace di sussumere e rispettare il particolare», le tendenze escatologiche che volevano abolire in tempo rapidi proprietà privata, nazione, famiglia, ecc.
Lo stesso Gulag si espande con la «collettivizzazione forzata dell’agricoltura». Come si spiegherebbe la cruciale svolta del ’28-’29? Dopo il trattato di Locarno, il riavvicinamento Francia-Germania, il colpo di Stato di Pilsudski in Polonia, la rottura delle relazioni commerciali e diplomatiche da parte del Regno Unito, i militari sovietici lanciarono l’allarme: il pericolo di guerra aumentava, bisognava industrializzare e garantire la fedeltà delle campagne. Dopo la «notte di san Bartolomeo» (Bucharin) contro i contadini, Stalin avrebbe cercato di tornare alla normalità, tanto che Trockij nel 1935 lo accusò di «liberalismo» e di «abbandono del “sistema consiliare”», di «ritorno alla “democrazia borghese”». In effetti Stalin – per far decollare la produzione – si batte contro il «livellamento “sinistroide” dei salari», contro l’egualitarismo, e propugna una nuova Costituzione, come si sa poi rimasta sulla carta. Di nuovo irrompe infatti l’emergenza, e il terrore: Losurdo – che parte dall’esame di una letteratura internazionale molto amplia, e “anti-stalinista” – accredita il fatto che l’opposizione trockista fosse un “pericolo” reale ancora nella prima metà anni ’30.
Dopo la guerra, ancora, Stalin dichiara che la dittatura del proletariato non era l’unica via al socialismo, non era obbligatoria nei paesi dell’Est europeo. Ma poi irrompe la Guerra fredda e la sicurezza nazionale dell’Urss riprende il sopravvento.
Di contro alla “cattiva” eredità dell'”utopismo” marxista Stalin impara dunque – per l’autore – la «vacuità dell’attesa messianica del dileguare dello Stato, della nazione, della religione, del mercato, del denaro, e ha altresì direttamente sperimentato l’effetto paralizzante di una visione dell’universale incline a bollare come una contaminazione l’attenzione prestata ai bisogni e agli interessi particolari di uno Stato, di una nazione, di una famiglia, di un individuo determinato». Ma – questo il suo limite per Losurdo – la lotta contro «l’utopia astratta» si ferma più volte a metà strada, per non entrare in totale rotta di collisione con alcuni degli assunti di fondo della cultura marxista e comunista. Insomma, nei tre decenni di “stalinismo” i ripetuti tentativi fatti da Stalin di abbandonare lo stato d’eccezione per tornare a una relativa normalità sarebbero stati frustrati sia dalla situazione internazionale, sia dall’utopia astratta presente nel marxismo, alimentata dall’opposizione interna. Con questa lettura di fondo, Losurdo dedica molte pagine a demolire la “leggenda” chruscioviana legata ai successi militari dell’invasore nazista; a sottolineare l’attenzione prestata da Stalin alle diverse “nazionalità”; a lodare il “realismo” stalinista a fronte delle tendenze di sinistra che volevano il superamento dello Stato, della famiglia, del denaro.
Losurdo riconosce e condanna la svolta brutale nel sistema concentrazionario che si ha nel ’37. Ma sottolinea come nel Gulag sovietico non vi fosse volontà omicida, e dunque non sia possibile l’accostamento ai lager nazista: quando muoiono a migliaia nel Gulag, durante la guerra, muoiono di stenti a migliaia anche nel resto dell’Urss.
E’ difficile seguire Losurdo, con la necessaria competenza critica, in tutte le pieghe del suo discorso. Alcune delle sue tesi (la critica al concetto di «totalitarismo», il rifiuto di considerare le decisioni del vertice sovietico come irrazionali, il richiamo al contesto storico) appaiono convincenti. Ciò che non convince è un discorso troppo portato a vedere sempre nella soluzione adottata la migliore delle soluzioni possibili e a sottovalutarne l’effetto disastroso sulla politica dell’egemonia (vedi la rottura dell’alleanza leninista operai-contadini) e nella costruzione stessa di una idea espansiva di socialismo. Si prenda ad esempio il Gulag: può uno Stato che si vuole socialista creare un sistema concentrazionario così vasto, in cui (anche se non sempre e ovunque) vi furono condizioni di vita – secondo le parole dello stesso Vysinskij, che Losurdo riporta – che ridussero «gli uomini “a bestie selvatiche”»? Non è già questo fatto una macchia indelebile per uno Stato che si voglia socialista? Non consola sapere che peggio fece – per fare un esempio – il Regno Unito con gli irlandesi o con i deportati in Australia: ciò che ci si aspetta da un sistema che fa dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo la sua legge non è giustificabile per uno Stato che nasce per combattere tale sfruttamento e tutto ciò che di “bestiale” vi è nell’umanità. E ancora: la situazione oggettiva aveva indotto a irrigidire l’organizzazione del lavoro, a rinunciare a un nuovo modo di intendere i rapporti tra i sessi, al superamento graduale dei limiti nazionali. Ma a questo punto non viene da chiedersi: valeva la pena di fare una rivoluzione? A cosa è servita? Credo di conoscere la risposta di Losurdo: enorme è stato comunque il sussulto di liberazione, milioni di persone si sono così liberate dal Medio Evo e dal colonialismo, in tutto il mondo. E’ vero, e dunque viva la Rivoluzione russa! Ma sembra giusto anche concordare con quanto ha scritto Giuseppe Prestipino sull’ultimo numero di Critica marxista (2009/1): seguendo Losurdo arriviamo alla conclusione che nel ‘900 il socialismo era impossibile.
Resta la domanda se le scelte fatte nel corso del primo e fallimentare tentativo di costruzione del socialismo abbiano costruito almeno le basi per ritentare l’esperimento nel nuovo secolo o siano oggi un ostacolo in più per chi ci voglia riprovare. Da questo punto di vista lo storicismo giustificatorio di Losurdo – pur avendo alcune ragioni – sottovaluta la possibilità stessa di una alternativa rispetto all’effettivo svolgimento storico: un politico realista può anche diventare un mostro sanguinario, uccidendo così di fatto, ugualmente, la creatura che “con realismo” si propone di proteggere. E se ogni volontà di cambiare anche la qualità della vita quotidiana, i rapporti tra i generi e tra gli esseri umani, le gerarchie e l’alienazione dentro e fuori la fabbrica viene bollata come «utopismo escatologico e anarcoide», non si troveranno facilmente le forze, le volontà, le soggettività per riprendere il cammino.