“Il sì di Madrid a Bush pagato col petrolio”

«George W. Bush ha incassato l’assenso di Aznar alla guerra all’Iraq in un modo molto semplice: comprando quel sì. L’ha “comprato” promettendo alla Spagna una fetta della “torta petrolifera” da dividere tra i “combattenti” dopo l’occupazione dell’Iraq. E ha “comprato” il sostegno di Aznar dando al primo ministro spagnolo mano libera nei confronti dell’Eta, come atto compensativo del sostegno acritico di Madrid all’avventura militare nel Golfo Persico».
A sostenerlo è lo scrittore Manuel Vázquez Montalbán. Durissimo è il suo giudizio su Josè Maria Aznar: «Ciò che spaventa e indigna – dice – è il suo opportunismo miscelato ad una inesauribile megalomania nazionalistica». «La guerra all’Iraq – sottolinea il romanziere catalano – sarà un decisivo banco di prova per la società civile spagnola». In questa chiave, le grandi manifestazioni per la pace delle scorse settimane – annota Vázquez Montálban – «evidenziano il risveglio della società civile europea dopo una lunga fase di “stanchezza” democratica».
«Non mi sorprende affatto – annota ancora lo scrittore – la ferrea determinazione dell’America ad agire militarmente contro l’Iraq con o senza il via libera dell’Onu. Da tempo, infatti, gli Stati Uniti hanno assunto il ruolo di gendarmi del (dis)ordine internazionale. E i gendarmi non si limiteranno ad agire in Iraq».
Da cosa nasce, a suo avviso, il sostegno spagnolo agli Usa nella crisi irachena?«La Spagna si è mossa sulla scia di vecchi patti stretti tra Aznar e George W. Bush. Gli Stati Uniti hanno saputo attrarre l’interesse del mondo economico, promettendo alla Spagna, qualora si fosse schierata al loro fianco, di riservarle un ruolo importante nella ricostruzione dell’Iraq dopo la guerra. Non va dimenticato che in Spagna il petrolio rappresenta un problema costante, in quanto da un lato non ne produce e dall’altro detiene una importante società, la Repsol, che ha subìto pesanti contraccolpi in seguito al collasso dell’economia argentina. Il petrolio è stata una delle “sirene” che hanno incantato Josè Maria Aznar e i grandi finanzieri di Spagna. Il sì all’avventura militare in Iraq in cambio di una fetta della “torta petrolifera” da spartirsi tra i fedelissimi di Washington all’indomani della occupazione dell’Iraq e dei suoi pozzi di petrolio: è questo il patto stretto tra il capo della Casa Bianca e il premier spagnolo».
C’è solo il petrolio alla base del patto Bush-Aznar?«No, c’è anche dell’altro. C’è, ad esempio, la mano libera garantita dall’America ad Aznar nei confronti dell’Eta, come servizio compensativo del sostegno spagnolo alla guerra all’Iraq. Inoltre, esiste un problema ideologico di fondo che si sposa con la megalomania nazionalista di Aznar, il quale spera sotto il suo mandato di fare in modo che la Spagna giochi un ruolo di primo piano sullo scacchiere internazionale a fianco del capo dell”impero”. Tutto ciò è estremamente grave dal punto di vista democratico, in quanto la maggioranza della popolazione è contraria ad un coinvolgimento della Spagna nella guerra all’Iraq. Il governo si trova isolato mentre il Paese è in una situazione d’attesa. Ci sono settori all’interno dello stesso partito di Aznar, il Ppe, che esprimono preoccupazione per la perdita di consenso elettorale che sta provocando l’allineamento pedissequo alle posizioni guerrafondaie di Washington. Staremo a vedere cosa accadrà dopo l’eventuale approvazione di una seconda risoluzione al Consiglio di Sicurezza nella guerra all’Iraq».
I sondaggi pubblicati dai maggiori quotidiani spagnoli segnalano che la grande maggioranza dell’opinione pubblica è contraria alla guerra all’Iraq. Siamo di fronte ad una scissione tra società civile e leadership politica?«Questo fenomeno non è solo spagnolo ma inizia a manifestarsi in molti altri Paesi. Ed è quello che definirei il rialzare la testa dopo una lunga fase di “stanchezza democratica”. Anche da voi in Italia la società civile ha mostrato segni di stanchezza di fronte a problemi come quello della corruzione, appoggiando a maggioranza il governo Berlusconi. Oggi, però, le grandi manifestazioni per la pace sembrano segnalare un risveglio importante della coscienza democratica. Per tornare alla Spagna, qui si sta producendo un divorzio tra una parte della società civile e Aznar. Molto dipende se la guerra, come appare sempre più probabile, esploderà, i suoi effetti, il livello di coinvolgimento della Spagna. Questi eventi metteranno comunque alla prova la società civile. Sarà per tutti un’esame di maturità».
La guerra vista da Manuel Vázquez Montalbán. Come valuta la ferrea determinazione degli Stati Uniti ad agire militarmente contro l’Iraq di Saddam Hussein, con o senza l’imprimatur dell’Onu?«Questa guerra annunciata e preparata da tempo, ben prima dell’11 settembre 2001, si colloca nell’ambito di quella politica di ripartizione del mondo che deriva dall’esito della “terza guerra mondiale”: la guerra fredda. Dopo questa “terza guerra mondiale” abbiamo assistito all’affermarsi dell’egemonia degli Usa come “gendarmi del pianeta”. Un “gendarme” che si è fatto garante della stessa sicurezza dell’Europa in cambio del riconoscimento dell’egemonia Usa. Questa situazione – che mette in conto la neutralizzazione di ogni istituzione internazionale, a partire dall’Onu – si è rafforzata con la prima Guerra del Golfo e la guerra nella ex Jugoslavia…».Ed oggi?«Oggi la guerra in Iraq mette l’Europa di fronte a un grave pericolo, in quanto gli Stati Uniti si trovano lontani geograficamente, fisicamente, dalle aree in cui si pratica l’Islam, mentre l’Europa ne è “vicina di casa”. Di più: l’Europa ha l’Islam in casa, essendo molte delle sue società – penso in particolare alla Francia e alla Germania – società sempre più multietniche e multireligiose. La guerra può innescare un conflitto di civiltà anche all’interno di queste società multietniche. Vi è poi per gli Usa la necessità di creare una zona militare-cuscinetto che possa vigilare l’espansionismo della Cina, attraverso il controllo delle Repubbliche islamiche centroasiatiche. Tutto questo rientra nel quadro di una politica imperiale americana che non nasce e non si fermerà all’Iraq».