Non è detto che il postmoderno sia “finito”, come recita il titolo di un recente e stimolante libro di Romano Luperini. Eppure, proprio come scrive Luperini, si moltiplicano i segnali di una ripresa del moderno, delle sue categorie, dei suoi temi, delle sue contraddizioni. Un’interessante riflessione in questo senso è svolta nell’ultimo libro di Armando Petrini, giunto da poco in libreria, che sin dal titolo (Dentro il Novecento. Un secolo che non abbiamo alle spalle, Pieve al Toppo, Editrice ZONA, 19 euro) enuncia il proprio orientamento critico di fondo.
Il libro si compone di cinque saggi di argomento diverso: il ruolo e il significato dell’industria culturale, il rapporto al suo interno fra teatro e cinema, la perdita d’aura nell’opera d’arte, l’attualità dell’antifascismo, l’eredità del sessantotto.
In netta opposizione ai discorsi che suggeriscono la necessità di porsi “oltre il Novecento”, il libro articola una posizione dialettica nei confronti dello scorso secolo e del suo contraddittorio e fecondo lascito. E’ questo il senso del richiamo a Edoardo Sanguineti, il quale ha recentemente scritto di un “interminabile” Novecento, alludendo a un rovesciamento della pur pregnante idea di Hobsbawm del “secolo breve”. In questo senso, osserva Petrini, “è difficile negare di essere continuamente testimoni del manifestarsi di una singolare aporia: le contraddizioni di cui il Novecento si è nutrito e che ha esso stesso alimentato non sono affatto sparite; ne germogliano anzi di sempre nuove e inaspettate”.
Da questo punto di vista due sono gli snodi forse più significativi del libro: il discorso sull’industria culturale e le riflessioni sull’eredità della contestazione giovanile.
Il concetto di “industria culturale”, osserva acutamente Petrini, vive in questi anni un destino singolare. Si tratta per un verso di una definizione piuttosto ricorrente, che allude però genericamente alla presenza del business nella cultura: tutto è business, dunque anche la cultura non potrà che essere attraversata dal business; in questo modo il termine registra però una ovvietà, che finisce per diventare un destino. Di ben altra complessità è invece il discorso svolto da alcuni importanti studiosi nel corso del Novecento a partire dalle riflessioni di Adorno e Horkheimer. Il saggio di Petrini (L’arma più forte. Un discorso sull’industria culturale) muove da una disamina articolata e appassionata del discorso dei francofortesi, individuando alcuni nuclei di fondo del loro ragionamento, riformulandoli, o integrandoli, soprattutto laddove il tempo trascorso abbia consegnato prospettive o problemi diversi da quelli originari. L’industria culturale si presenta complessivamente come un “sistema”, argomenta Petrini sulla scorta di Adorno. Un sistema di cui è possibile individuare una ratio profonda. Ma così come quella ratio non è sempre così facilmente identificabile né è sempre allo stesso modo efficace, il “sistema” è meno granitico di quanto l’analisi di Adorno e Horkheimer non lasci intuire, continuando a presentare crepe e smagliature all’interno delle quali si inseriscono quelle opere che intendono realizzare un discorso in vario modo “critico”. Come tutto ciò che viene generato dal mercato borghese, l’industria culturale apre continuamente contraddizioni al suo interno; e apre perciò varchi proprio laddove tende a chiuderli. E’ dunque sempre possibile trovare (e proporre) nel mercato della cultura quelli che Walter Benjamin chiamava “prodotti di trasformazione” del mercato, distinti e opposti ai normali “prodotti di rifornimento”, che sono però naturalmente la stragrande maggioranza e riescono ad avere la meglio finché il sistema non verrà mutato alla radice.
Il saggio sul Sessantotto (La lunga eredità del Sessantotto. Per una critica della contestazione giovanile) affronta il tema delicato e spinoso dell’eredità del “movimento”, distinguendo innanzi tutto, e con una certa nettezza, fra il “Sessantotto degli studenti e degli intellettuali” e il “Sessantotto degli operai”. Lasciando il secondo da parte (si tratta di quel Sessantotto che in un libro del 1979, per nulla tenero nei confronti del “movimento”, Lucio Libertini proponeva di chiamare “Sessantanove”), il saggio si concentra sull’eredità della contestazione giovanile.
La tesi di fondo del saggio è molto forte, persino provocatoria. A giudizio di Petrini non è del tutto vero che l’involuzione impolitica degli anni successivi sia stata la conseguenza della sconfitta del Sessantotto. » vero piuttosto che alcuni germi impolitici che matureranno nel Settantasette erano già presenti nelle componenti egemoniche del Sessantotto.
La contestazione giovanile si configura in questa prospettiva come un movimento profondamente anti-moderno, che contrappone alla rivoluzione la rivolta e alla lotta di classe la lotta contro l’autorità; e che contribuisce in questo senso paradossalmente ad avviare quella stagione culturale che di lì a poco porterà al tentativo di liquidare l’esperienza novecentesca.
Si tratta, come si vede, di una tesi ardita, che non mancherà di sollevare critiche. Del resto Petrini si mostra ben consapevole delle possibili obiezioni e dei possibili fraintendimenti. Il saggio in questo senso non ha nulla a che fare con la vulgata revisionistica che mira a costruire un’immagine distorta del ruolo del conflitto nel corso degli anni Sessanta e Settanta. Al contrario, proprio nell’intento di dare nuovo vigore a un concetto complesso e “forte” (dunque dialettico) del conflitto, Petrini ritiene necessario che le generazioni che oggi si affacciano ai nuovi “movimenti” riflettano criticamente sul passato, riannodando i fili spezzati con il novecento e riappropriandosi di una visione complessa dell’agire politico.
Petrini ci offre, in conclusione, un libro ricco e stimolante. Se è vero che abbiamo tutti bisogno di discutere per “rifondare” il nostro comunismo, le sue pagine ci consegnano molti suggestivi spunti di riflessione.