Diciamolo subito: del rapimento dei tre giornalisti romeni non è che interessi più di tanto. Intriga, forse, solo il particolare che tra loro c’è uno strano cittadino americano-iracheno e quello che i militari romeni sono a Nassiriya insieme ai soldati italiani. Poi basta. Né la carta stampata, né le tv, né gli organismi internazionali della stampa e tantomeno i governi dell’occidente – Europa e Stati uniti – mostrano di strapparsi le vesti. E’ come se, costretti ad acquistare scampoli sul mercato del disastro internazionale della guerra, pagassimo con moneta da salari dell’est, non con la stessa indignazione e preoccupazione per gli altri giornalisti sequestrati e per gli altri rapiti, occidentali e non. E’ una vergogna, e insieme il segno perverso raggiunto da quella che continuiamo a chiamare crisi irachena.
Non è così naturalmente per noi che abbiamo vissuto in presa diretta il rapimento di Giuliana Sgrena e l’uccisione di Nicola Calipari, rimanendone segnati per sempre. Ma così non dovrebbe essere per nessuno. Almeno per due ordini di motivi. Il primo è che, con la stagione dei rapimenti di giornalisti, si continua a perseguire e a realizzare l’obiettivo che nessuno racconti più la guerra irachena.
Mentre restano ancora prigionieri la giornalista francese Florence Aubenas e il suo interprete iracheno Hussein Hanoun. Le forze d’occupazione militare non smettono di raccontare che, dopo le elezioni, avanza il processo democratico. Ma, fatto singolare, «avanza» senza più informazione. Sul campo di battaglia restano dimenticati giornalisti iracheni e più o meno embedded reporter dell’est che definiremmo, tout court, di una nuova categoria: quella degli abbandonati.
Più o meno. Perché, per sopravvivere alla pericolosa marginalità delle truppe inviate dai governi della «nuova» Europa, a volte intervistano il quisling Allawi, a volte invece rischiano più di ogni altro inviato nelle aree controllate dai ribelli iracheni. E questo per informare un’opinione pubblica che, nonostante i governi dell’est si siano precipitati tra i «volenterosi» al fianco delle truppe americane per ritrovarsi ormai impantanati nelle sabbie mobili dell’Iraq, restano in maggioranza contrarie alla guerra e hanno chiesto e chiedono che i soldati ucraini, bulgari, romeni, polacchi, céchi e slovacchi tornino a casa, dopo tante uccisioni e stragi. Questo ha deciso l’Ucraina, questo ha annunciato ieri il governo di Sofia.
Ed è bene ricordare che l’infausta adesione di quei governi alla guerra americana, giustamente vissuta come un tradimento dalla «vecchia Europa», era tuttavia la risposta alle tante, troppe esclusioni e nuovi muri contro l’est da parte dell’Unione europea, e insieme l’inevitabile adeguamento alla prova della guerra già praticata nel 1999 da tutto l’Occidente, perfino con i bombardamenti aerei in piena Europa, contro la piccola ex Jugoslavia.
Il secondo motivo per il quale dobbiamo mobilitarci per la liberazione, subito, dei giornalisti romeni rapiti è che loro hanno scelto di raccontare l’Iraq proprio in questo momento, proprio mentre tutti fanno finta di niente, dando tutto per scontato.
E invece, dopo le elezioni etniche conclusesi il 30 gennaio, non solo i partiti che hanno vinto un paese spaccato e in frantumi non riescono dopo più di due mesi a formare il nuovo governo, ma non sono neanche capaci di nominare il presidente del nuovo parlamento. Mentre la guerra, l’occupazione militare, le autobombe, gli agguati, gli attacchi della guerriglia, le provocazioni del terrorismo di Al Qaeda, i massacri delle truppe americane continuano ogni giorno di più. I prigionieri politici sono più di diecimila, segno certo che le Abu Ghraib sono solo all’inizio. La popolazione civile è ancora il bersaglio preferito dei raid aerei. E i bambini iracheni, denunciano le Nazioni unite, non sono mai stati denutriti come in questo