Il “secolo americano” di Bush

Come Bill Clinton, prima del G-8 di Denver, Colorado (1997), George W.Bush ha aspettato la vigilia genovese per pronunciare il suo discorso programmatico e, di fatto, per stabilire l’agenda dell’incontro. Non ci si stupisca se è il più forte che stabilisce le priorità. In una riunione, come questa, dei più forti, è l’unica logica che conta. Il che spiega perché Bill Clinton e George Bush siano concordi nel “dimenticare” le Nazioni Unite.
Clinton parlò, con grande enfasi, del futuro XXI come del “secolo americano”. Dietro aveva sette anni di una spettacolare crescita dell’economia americana, il trionfo di Wall Street, milioni di americani divenuti azionisti di qualcosa che dava dividendi in crescita pazzesca. L’euforia del suo mercato lo aveva, per così dire, accecato.

Ma gli “argomenti delle cose” erano, o apparivano, forti. Tanto che nessuno poteva nemmeno sognarsi di contestarli, meno che mai di contrastarli. Quattro anni dopo il presidente degli Stati Uniti detta di nuovo la legge. Ma le condizioni del mondo sono tremendamente diverse e gli “argomenti delle cose” non sono più niente affatto incontestabili. Restano però incontrastabili. Questo è il punto della nuova situazione che merita di essere analizzato con cura, senza troppe emozioni, se si vuole capire cosa potrà accadere e se si vuole costruire una politica e una diplomazia realistica.

Il quadro si può definire così: è finita la spinta propulsiva della crescita americana. Quello che si vede dice, senza equivoci, che una ripresa sarà estremamente difficile da realizzare in tempi rapidi. Proprio ieri Alan Greenspan, il vero capitano della nave, lo ha detto raggelando le borse mondiali. Bisogna credergli perché è lui che sta sul ponte di comando e sa come stanno le cose. Credergli con l’unico beneficio d’inventario che, siccome parla ex-cathedra, come il Papa, dev’essere prudente. Se ci appare imprudente è soltanto perché la crisi è talmente grave da impedirgli di edulcorare la pillola.

Le ragioni della debolezza economica americana sono profonde e non guaribili a colpi di abbassamento dei tassi d’interesse. La crescita degli anni clintoniani è stata realizzata a spese del resto del mondo, ma non può proseguire perché era una crescita drogata e che ha drogato il resto del mondo. Il free capital flow ha investito il resto del mondo, consentendo alla finanza americana di gestire l’intera finanza mondiale. Ma il resto del mondo non ha i meccanismi politici, sociali e istituzionali dell’America e ha finito per franare. Clinton parlava sull’orlo del baratro. La crisi era già cominciata nei mercati asiatici, nel 1997; sarebbe esplosa nel 1999, in Russia, Indonesia, Brasile. Inevitabile che arrivasse circolarmente negli Stati Uniti, da dove tutto era cominciato nel 1991, esattamente nella seconda metà del 2000.

Ora gli Stati Uniti hanno assoluto bisogno di convincere il resto del mondo a sostenere la crescita americana. Ma essi stessi non hanno altri strumenti per reggerla. Basti pensare che tutte le speranze sono puntate sul “consumatore americano”. Se smette di consumare saranno guai. Pensare continui a consumare ai ritmi di questi anni, con il crollo del Nasdaq in corso, e con un indebitamento delle famiglie americane che ha raggiunto vertici inimmaginabili (e insostenibili), è una pia illusione.

Qui si colloca George W.Bush. E spiega perché la sua agenda ci appare così brutale e, tutto compreso, come sospesa sul vuoto. I pilastri (politici e logici) su cui quella di Clinton poggiava non ci sono più. Cosa resta? Resta l’immenso potere militare e tecnologico degli Stati Uniti. Restano le posizioni di controllo dei principali sistemi di comunicazione. Resta un impressionante predominio sull’intera architettura finanziaria del mondo. E’ sufficiente tutto questo per garantire l’egemonia americana? Per garantirla a lungo? Forse, ma implica una forte dose di coercizione.

Ecco perché Bush parla di pace per tutto il mondo, ma sostanzia la sua offerta con nuove dottrine strategiche in cui l’America non negozierà più con nessuno la propria sicurezza nazionale. Ci si prepara a quel “clash of civilizations” (scontro di civiltà) di cui parlò il professor Huntington. Lo scudo stellare è solo una parte, non piccola, di questo progetto. Qualcuno lo ha definito “il più importante progetto di lavori pubblici dopo il Piano Marshall”. Ed è giusto, perché significherà l’iniezione di 100 miliardi di dollari di denaro pubblico nel settore più in crisi della finanza americana, la new economy. Ma il suo significato strategico è altro: è un’espressione della unilateralità americana cui dobbiamo prepararci a 360 gradi. Niente più negoziati sul disarmo, in questa logica, ma semplice adattamento dei sistemi d’arma americani alle esigenze difensive americane e successiva comunicazione al resto del mondo. Non ci si lasci ingannare dalle forme. Bush dice che discuterà con i suoi alleati, ma nel frattempo agisce. E con una rapidità che gli è consentita dai suoi poteri e dal suo sistema politico. Agisce velocemente perché i tempi stringono. I suoi esperti prevedono che la Cina diverrà presto (in tempi storici) grande potenza mondiale, anche strategicamente. La data ipotetica, il crinale, è già stato definito al computer: il 2017. L’America non può permettersi di arrivare a quell’appuntamento senza essersi garantita una superiorità assoluta. Questo mette in discussione il suo attuale sistema di alleanze? Peggio per l’attuale sistema di alleanze.

Il secondo punto del suo messaggio è ancora, se possibile, più esplicito. Non c’è spazio per distinguo. E’ la richiesta di un atto di fede nel mercato senza condizioni. Mercato come ipostasi. Chi protesta è ipso facto un nemico e un retrogrado. Libero flusso di capitali, libero commercio, privatizzazioni, riduzione delle tasse. Non ci sono contraddizioni ammissibili in questo meccanismo. E’ l’ideologia della nuova destra mondiale che ripropone se stessa come vincente con particolare veemenza, proprio e anche perché sente i primi scricchiolii. L’unilateralismo è anche qui la carta decisiva. Kyoto si cancella perché entra in contraddizione che tutte quelle libertà. E’ una regola, incompatibile con gl’interessi degli americani. Non c’è spazio alcuno per un discorso sull’interesse generale.

George Bush è un uomo davvero molto semplice. Egli sembra sinceramente convinto che il resto del mondo sia composto di persone che sentono e ragionano come gli americani. Si aspetta che reagiscano come gli americani. Questo è forse il guaio maggiore perché, come sappiamo, non sarà così. Con tutto quello che ne potrà seguire. Il massimo cui George Bush può spingersi è quell’idea di “conservatorismo compassionevole” che dovrebbe consentire, in ultima analisi, ad aiutare quella piccola parte dei più poveri (quella che avrà la fortuna di essere volta a volta messa sotto il fuoco dei riflettori dei media mondiali) a sopravvivere. Secondo la formula di Michel Camdessus: “diventare più ricchi per aiutare i più poveri”.

Queste sono le coordinate in cui si svolgerà la discussione al tavolo del G-8 di Genova. Ci saranno molti sorrisi, strette di mano, dichiarazioni di buone intenzioni. Le buone maniere sono state inventate per non creare troppi imbarazzi, ma l’agenda è dura. Anche per gli europei, che ancora non sono diventati cittadini americani. Non parliamo del russo, che porterà a Genova, sulle sue spalle divenute ora così larghe, anche l’alleato Jiang Zemin. Tutti avranno di fronte un’America in crisi, guidata da un presidente che non lo sa, ma che sa perfettamente, invece, di essere straordinariamente potente. Quanto basta, per ora, a far piegare la testa a chiunque. E che sta già impostando il futuro in modo che anche i suoi successori possano farlo: unico segno della sua lungimiranza.