Il ruolo pubblico nella politica economica e l’autonomia della spesa sociale

Una delle tesi più diffuse della contenuta dinamica del Pil europeo e dell’Italia è quella di un eccesso di finanza pubblica e delle spese per lo stato sociale. Sostanzialmente le entrate fiscali, unitamente alle spese sociali, sottrarrebbero risorse finanziarie al mercato per alimentare la crescita economica. In particolare sarebbero compromessi gli investimenti fissi lordi e quindi la capacità di rinnovare il tessuto produttivo. In qualche modo le entrate fiscali e l’eccesso di spesa sociale condizionerebbe la fiducia degli imprenditori.
Credo che sia giusto sottolineare come i sostenitori della presente «tesi» non chiedono la cancellazione dello stato sociale, piuttosto una diversa articolazione. Senza pre-giudizi ho provato a verificare la veridicità dell’ipotesi attraverso una comparazione tra i principali paesi europei e a livello aggregato. A questo scopo ho utilizzato la percentuale sul Pil degli investimenti fissi lordi e della spesa sociale. Se all’aumentare della spesa sociale si osservasse una riduzione della percentuale sul Pil degli investimenti, la tesi avrebbe un suo fondamento.
Innanzitutto occorre delineare almeno il terreno comune europeo in tema di stato sociale e di politiche per lo sviluppo e, successivamente, verificare gli effetti di queste scelte. Il trattato di Maastricht, almeno la prima parte, sottolinea che l’Europa si fonda su uno stato sociale elevato, mentre Lisbona 2000 rappresenta un passo in avanti decisivo. Per la prima volta si definiscono alcuni obiettivi prioritari: lotta alla povertà e all’esclusione sociale.
Nel 2005 Lisbona 2000 viene modificato. Indubbiamente è ridimensionato, ma non per questo molti dei suoi obiettivi sono disprezzabili. Infatti, l’obiettivo generale è quello di «promuovere la coesione sociale e le pari opportunità per tutti attraverso sistemi di protezione sociale e politiche di inclusione sociale che siano adeguati, accessibili, finanziariamente sostenibili, adattabili ed efficienti». Inoltre, nel rispetto del principio della sussidierietà, l’Unione europea ha deciso di lasciare agli stati la definizione e l’implementazione delle politiche, lasciando all’Europa il compito di coordinamento. Dopo quasi sette anni da Lisbona 2000 possiamo verificare se le politiche sociali hanno impedito o meno la crescita e gli investimenti.
In prima approssimazione non c’è una relazione diretta tra maggiori spese sociali e minore crescita del Pil. Ancora più significativa è l’invarianza tra le maggiori spese sociali e gli investimenti fissi lordi. In alcuni Paesi (Italia, Gracia, Spagna, Svezia, Francia) all’aumentare o alla stazionarietà della spesa sociale corrisponde un incremento degli investimenti fissi lordi o una loro linearità. Stessa cosa si può dire per la media dei paesi dell’Unione, cioè gli investimenti non aumentano o diminuiscono alla variazione della spesa sociale.
Inoltre, la crescita del Pil, salvo che per l’Italia, sembra non risentire della spesa pubblica, piuttosto aiuta a creare un ambiente favorevole per aumentare la propensione al rischio. Solo per la Germania, ancorché in misura contenuta, la tesi trova una parziale e limitata conferma. In realtà, è molto più alta la possibilità di una relazione positiva, ancorché contenuta, tra stato sociale e investimenti fissi lordi.
Ciò non dovrebbe sorprendere. Infatti, lo stato sociale nasce non solo per attutire le crisi economica, ma anche per creare delle condizioni ambientali più favorevoli alla crescita. Sostanzialmente la tesi della sottrazione di risorse al sistema economico imputata alla spesa sociale, non trova una puntuale verifica. A dire il vero nemmeno la tesi contraria. Sostanzialmente si osserva una significativa «autonomia» della spesa sociale, nel senso che a) non condiziona negativamente la dinamica degli investimenti e b) crea una maggiore propensione al rischio.
Infatti, la dinamica degli investimenti e della crescita è molto più sensibile alla specializzazione produttiva e alla sua struttura. Piuttosto è la composizione della stessa spesa sociale che può condizionare la crescita: penso ai finanziamenti diretti alla formazione in generale, anche se i suoi effetti non sono circoscrivibili all’anno di competenza. Infatti, l’alta formazione (di base e universitaria, così come quella delle maestranze) non sono valutabili nel breve periodo, e sono tanto più efficaci tanto più il sistema produttivo è ricettivo e calibrato su figure professionali di alto profilo.
Se puntualizziamo l’attenzione sull’Italia, si potrebbe persino ribaltare la tesi adottata per tagliare lo stato sociale. Infatti, a partire dal 2000 il peso della spesa sociale sul Prodotto interno lordo è sensibilmente cresciuta, anche se rimane distante dalla media europea per 1,5 punti di Pil che corrispondono a circa 20 miliardi), allo stesso tempo la percentuale degli investimenti fissi lordi è cresciuta così tanto da superare la media dei paesi europei. Sostanzialmente non c’è una evidenza empirica che la spesa sociale limita la crescita economica.
In tutta evidenza è una scelta unicamente politica.