Il ritorno dello stato

“Business as usual”, gli affari come al solito, è stato il primo dei messaggi forti che Bush ha cercato di far passare nella sua nazione debole all’indomani dell’11 settembre. La cerimonia della riapertura di Wall street, il lunedì successivo alle stragi di New York e Washington, è stato il primo momento di pubblico cordoglio per la tragedia. E da allora non passa giorno senza che dai massimi vertici dell’amministrazione statunitense non sia lanciato un messaggio, un ponte, un incitamento per “la nostra economia”. Mentre era chiaro a tutti che non c’era più niente di “usual”, nessuna tranquilla normalità possibile, nessuna ripresa di un percorso lineare momentaneamente interrotto.
La frattura maggiore viene proprio da quel mondo dell’economia colpito fisicamente e simbolicamente. Ieri il governatore della banca centrale statunitense, guida indiscussa della politica monetaria del dollaro da Clinton a Bush, ha ufficializzato quello che era già nell’aria: serve una robusta iniezione di intervento pubblico, nell’ordine di 100 miliardi di dollari. La più grossa manovra dal dopoguerra, dicono. Per far cosa? Per aiutare un’economia già quasi in recessione, colpita dai terroristi e dai timori per il futuro. Dopo il decennio del liberismo e della deregulation, dopo il ventennio dello stato minimo, dopo gli anni dell’ubriacatura da net-economy, ecco la svolta: lo stato torna buono, e non solo per coprire i danni delle compagnie aeree e assicurative. Lo stato – il governo, la politica – tornano utili per spendere soldi, accompagnare i consumatori, ridare fiducia ai risparmiatori, aiutare l’economia, risollevare il capitalismo. Come ai tempi di Keynes e Roosevelt (ma senza nessun Keynes e nessun Roosevelt all’orizzonte: neanche nella nostra Europa liberista e concorrenziale, che si trova all’improvviso spiazzata dal nuovo vento americano).
Con la crisi dell’economia americana, naturalmente, il terrorismo c’entra fino a un certo punto. Non è stato l’attacco dai cieli americani a mettere in difficoltà un modello che si reggeva solo sul fatto che tutti ci credevano: i consumatori che si indebitavano per spendere, gli speculatori (grandi e piccoli) che si indebitavano per giocare in borsa. Quel giocattolo si era rotto da tempo, e tutti sapevano che, dopo la sua dubbia elezione, il presidente Bush si sarebbe trovato alle prese con i guai della recessione. Ma difficilmente l’establishment americano avrebbe potuto compiere una inversione così repentina e radicale come quella annunciata in questi giorni – dal “conservatorismo compassionevole” di Bush all’interventismo economico – senza la copertura emotiva e politica della guerra. Una guerra dichiarata (“la prima del XXI secolo”) e ancora non iniziata, ma già in atto nella vita quotidiana, dal giro di vite sulle libertà alla politica economica.
Resta da vedere come una classe politica che si è imposta (sia pure a stento) sull’ideologia del “più mercato” possa poi governare una lunga fase di “più stato”. Non è l’unico dei paradossi dell’era Bush, che ha speso la campagna elettorale a promettere il ritiro delle truppe americane dalle zone calde del mondo e si trova ora a piazzare qua e là nel mondo una considerevole quantità di truppe di terra. Che ha messo tutto il suo peso (distruttivo) nel mito dello scudo stellare e ora si trova tra le mani un progetto inutile e inutilizzabile. Che ha passato i primi mesi della sua presidenza a stracciar trattati col resto del mondo, e ora è costretto a rincorrere consenso e cooperazione internazionale.