Se un instant-book è un libro scritto in tempi stretti e incentrato su un argomento di grande attualità, allora questo libro di Alberto Burgio è un instant-book, perché racconta in modo dettagliato i principali accadimenti italiani e internazionali degli ultimi tre-quattro anni, con un resoconto informato, mai banale e per giunta di assai piacevole lettura. Al tempo stesso, però, questo libro non è un instant-book, perché la narrazione punta a inserire i fatti susseguitisi all’11 settembre 2001 in uno sfondo storico e teorico ben preciso, individuato nel sottotitolo e nel suo rimando all’omonimo celeberrimo libro di Karl Polanyi.
L’idea è semplice ma non per ciò tranquillizzante. Le guerre che particolarmente hanno segnato quest’ultimo torno di tempo e, all’interno delle democrazie occidentali, il potenziamento delle polizie e le nuove leggi su immigrazione e ordine pubblico non sono affatto, dice Burgio, misure di lotta contro il «terrorismo internazionale», ma tasselli di un processo di regressione autoritaria simile, appunto, alla «grande trasformazione» che negli anni Trenta del Novecento sancì la «fine del laissez-faire» (per dirla con Keynes) e l’avvento dei fascismi.
È questo – prosegue l’autore – l’orizzonte entro cui collocare l’irresistibile ascesa di un potente gruppo di ideologi (i neoconservatives americani) che, ad onta della proclamata fede nelle virtù del libero mercato, si sta all’inverso rendendo artefice di un massiccio ritorno dello Stato nella gestione dell’economia e più in generale della società, come testimoniato dal rapidissimo (meno di tre anni) passaggio al «rosso» del bilancio federale statunitense in conseguenza dell’enorme espansione delle spese militari.
Ovviamente, il prepotente riaffacciarsi dello Stato come gestore della domanda effettiva non prelude affatto ad un ritorno dell’«età dell’oro» dei trenta gloriosi keynesiani: al contrario, all’espansione delle spese militari fa da contraltare l’ulteriore contrazione delle spese sociali, già al lumicino dopo decenni di «guerra dei ricchi contro i poveri» (come la definì Joan Robinson).
Inoltre, è chiaro che il ruolo economico svolto negli Usa dalla mano pubblica ha come scopo la conservazione dei privilegi del signoraggio esercitato tramite il dollaro, un obiettivo che potrebbe tranquillamente dirsi «imperialista» e che – spiega acutamente Burgio – viene dissimulato dietro il paravento della «guerra per il petrolio», quasi che gli Stati Uniti muovessero guerra a destra e a manca per qualche barile in più e non invece per impedire manu militari l’ascesa di loro potenziali antagonisti come l’Europa, la Russia, la Cina.
Messe le cose in questi termini, è senz’altro legittimo richiamarsi alla grande lezione polanyiana, ossia all’«idea che la violenza del sistema borghese nelle sue più tragiche complicazioni affondi le sue radici nel mito del mercato autoregolantesi»: perché è esattamente all’insegna di quel mito che abbiamo vissuto negli ultimi vent’anni, in cui abbiamo distrutto allegramente i primi rozzi strumenti di regolazione democratica del processo sociale di produzione, faticosamente edificati nei trent’anni precedenti.
Si potrebbe sperare che la memoria di quanto è successo allora suggerisca ai reggitori della cosa pubblica di imboccare strade meno crudeli per riformare l’economia di mercato (già, perché – come osservò Polanyi – il fascismo fu esattamente «una riforma dell’economia di mercato», sebbene «raggiunta al prezzo dell’estirpazione di tutte le istituzioni democratiche»).
Ma viviamo in tempi di memoria corta e/o lunga malafede, e non abbiamo da sperare che in noi stessi.
Alberto Burgio, Guerra. Scenari della nuova «grande trasformazione», DeriveApprodi, pp. 231, 13 euro