Vorrei provare a portare il mio contributo al dibattito apertosi in seguito all’articolo di Grassi e Burgio pubblicato su il manifesto del 19 luglio. I nodi sui quali l’articolo si sofferma mi paiono grosso modo due: il primo riguarda la necessità di consolidare la saldatura fra i movimenti anti-g8 e le lotte dei metalmeccanici. Il secondo è invece relativo a una analisi del movimento e quindi delle sue potenzialità e dei suoi limiti. A quell’articolo sono state mosse critiche di metodo e di merito. Sul metodo: sia Giordano che Ferrero hanno stigmatizzato il fatto che una discussione sui limiti del movimento sia avvenuta nel momento più alto della sua iniziativa, quasi a voler intendere che mentre gli altri lottano qualcuno, inopportunamente, critica. Su questo concordo con Cremaschi quando afferma che, comunque la si pensi, le cose scritte da Burgio e Grassi provengono da compagni che, come tutti noi anche a livello locale, stanno lavorando con tutte le proprie forze perché il movimento cresca e si rafforzi. A questo punto però chiedo: quale è il momento opportuno per tentare l’analisi di un movimento, se non quando esso esiste, si manifesta e costruisce iniziative? E ancora non sono mai stato dell’idea che ci sia il momento dell’iniziativa e poi, “in vitro”, distaccato dal contesto e in una stanza asettica quello dell’elaborazione teorica (Marcos stesso invita a farsi domande mentre si cammina), a meno che non si pensi che “il movimento” sia, a prescindere dalle forme nelle quali si manifesta e dai contenuti sui quali si costruisce, sempre uguale a se stesso, e, coerentemente a ciò, rappresenti un “soggetto politico” compiuto e quindi dotato, in quanto tale, di una elaborazione o addirittura di una prospettiva di trasformazione della società compiute e condivise da tutti i soggetti, le anime, le associazioni o i singoli individui che lo compongono.
Due punti di merito Nel merito i due punti sollevati da Burgio e Grassi mi sembrano difficilmente contestabili almeno in un’ottica marxista quale quella che rappresenta il Dna di una forza come la nostra. L’obiettivo dei comunisti, è trasformare, cambiare la società, battere il sistema capitalistico, e noi stiamo dentro ai movimenti di lotta degli operai come a quelli dell’antiglobalizzazione con questo portato di esperienza e cultura politica. Allo stesso modo fanno la galassia dell’antagonismo sociale (in tutte le sue molteplici varianti), l’Arci, la rete Lilliput, i Verdi, la Fiom, le Acli, i Cobas ciascuno con la propria cultura e la propria identità. Il movimento è l’humus fondamentale per qualsiasi forza di trasformazione, senza si rifluisce in dinamiche tutte istituzionali, non si creano e non si formano neanche i quadri politici, ma noi non ci identifichiamo con il movimento, perché l’identità di questo si costituisce delle identità di tutti quei soggetti che si riconoscono in esso. Il rispetto della identità di ciascuno è il presupposto per l’allargamento e il rafforzamento dello stesso. Un movimento si organizza e lotta per raggiungere precisi obiettivi che rappresentano quel minimo comun divisore che ne garantisce unità e tenuta. Il fatto di dire, come fanno Burgio e Grassi, che disancorati da una prospettiva di classe ci possa essere un riflusso su piattaforme deboli o compatibiliste, fotografa una realtà, un rischio reale per scongiurare il quale il collegamento del movimento anti-g8 alle lotte operaie, rappresenta un elemento fondamentale.
Il ruolo del partito Qui non si tratta di dissolversi nel movimento, bensì di recitare a pieno il nostro ruolo. A Pistoia in una assemblea su Genova alcuni compagni del Gsf erano contrari a chiedere alle donne in lotta dalla Incom di Montecatini Terme, che saranno licenziate perché la fabbrica trasferisce una linea di produzione in Romania, di aprire il corteo della nostra provincia alla manifestazione del 21. Ecco invece dove deve esplicarsi il nostro ruolo, nessuno vuole che il Prc porti il “verbo”, ma che affermi la propria cultura politica fatta di lotte unitarie in un’ottica di classe. Ferrero nel suo articolo scrive che ogni movimento nasce contro delle forme specifiche di oppressione e che la rivoluzione del ’17, a partire dalla lotta alla guerra, le lotte del ’43-44, a partire dalla Resistenza e dal salario, ed il ’69, a partire dallo sfruttamento in fabbrica dall’anti-colonialismo e dal Viet-Nam, stanno lì a dimostrarlo. Io sottoscrivo tutto il concetto espresso da Ferrero poiché proprio gli esempi da lui portati rafforzano quanto ho cercato di dire. D’altro canto, ci sarebbe da chiedersi perché il grande movimento contro la guerra nei Balcani si sia esaurito dopo la fine dei bombardamenti. Credo che una delle cause sia appunto da ricercare nello scarso legame, soprattutto per responsabilità delle organizzazioni sindacali, con un punto di vista e un orientamento di classe, e nella sostanziale sovraesposizione degli aspetti umanitari contrapposti a quella guerra imperialista. Analizzare noi, gli altri, il movimento non vuol dire quindi chiamarsi fuori in un “aventino” della politica, bensì viverci dentro cercando di evitare che con il suo riflusso vengano meno anche quelle prospettive che oggi si sono aperte. La situazione politica, quella sociale e quella economica nazionale ed internazionale sono in grande movimento. Le nostre antenne, le intelligenze di ciascuno di noi devono essere aperte e ricettive. Nessuno può arrogarsi il diritto di avere una verità al di sopra degli altri, bensì delle convinzioni che mette a disposizione di tutti come contributo in una fase di ricerca e di grandi cambiamenti. In una situazione come questa usare strumentalmente un dibattito interno magari per il nostro piccolo congresso mi parrebbe quantomeno provinciale, nel momento in cui si chiede mente aperta e disponibilità al dialogo con chi sta fuori di noi, brandire verità assolute e rivelate al nostro interno.