Il rex destruens dell’impero sovietico

L’esperimento sovietico rimane un rebus, che cosa è stato, perché è morto. Per chi ancora se ne interessa l’approccio può essere «esterno» o «interno» all’esperimento. Gli studiosi «esterni» si servono della storia, dell’economia, dell’ideologia, della ricerca sul campo. Il risultato è spesso una pregevole opera di fantasia che i russi liquidano con sufficienza. Esemplare in tal senso è il caso della biografia di Nikolaj Bucharin pubblicata negli anni settanta da Stephen Cohen, uno storico americano politicamente ben lontano dalle barricate da cui per decenni hanno sparato sull’Urss i suoi colleghi Richard Pipes e Robert Conquest. In gran buona fede il «suo» Bucharin è costruito come l’alternativa a Stalin, è dipinto come l’intellettuale borghese liberal che avrebbe realizzato il socialismo dal volto umano. All’epoca gli intellettuali moscoviti intervistati da Cohen, ironizzavano su «quel» Bucharin: chi viene da lontano ha le «sue» domande e vuole le «sue» risposte, perché deluderlo? E così lo avevano compiaciuto raccontandogli proprio quello che l’americano si aspettava per un libro, immaginato a Princeton, in un luogo e in un tempo anni luce distante dalla loro Urss.

All’epoca, come prova di autonomia da Mosca, anche il partito comunista italiano esaltò con un gran convegno il Bucharin di Stephen Cohen. I comunisti italiani divennero buchariniani nella versione fantasiosa di Cohen, proprio come negli anni ottanta si sarebbero gorbaciovizzati. A motivarli era la costante necessità di affermare la diversità tra il Pci e l’esperimento sovietico. Da qui l’entusiasmo quando divenne segretario generale del partito comunista sovietico un uomo che nel suo primo discorso criticò il sistema sovietico. Giacché dalle critiche sarebbero maturate riforme e innovazioni e sull’Urss si sarebbe ricostituito un qualche consenso internazionale. Il suo isolamento si sarebbe allentato e conseguenze positive sarebbero derivate anche per il Pci.

Ed è qui si colloca l’approccio «interno» all’esperimento. A praticarlo erano quegli iscritti al partito convinti di conoscere l’Urss: vi avevano vissuto a lungo, sapevano come muoversi per valutare l’esito delle riforme, le reazioni nel partito sovietico, i poteri che ostacolavano, i consensi che motivavano l’uomo del miracolo. Il miracolo era riuscire a invertire la crisi dell’esperimento sovietico. La fiducia riposta in Gorbachev è stata la millesima della millesima parte di quella avuta dai loro padri in Stalin ma insomma per qualche anno c’è stata. Nella seconda metà degli anni ottanta, quantomeno a livello locale il partito comunista italiano aveva ripreso i rapporti con istituzioni culturali sovietiche e in occasione dei convegni accademici, gli ospiti sovietici avevano incontri riservati con i compagni italiani. La domanda era sempre la stessa: ce la farà Gorbachev? E gli economisti, gli storici, i sociologi ospiti, felici di essere a Siena, a Cortona, a Napoli, a Roma, erano molto rassicuranti.

Ricordo di aver invitato all’Istituto Universitario Orientale di Napoli la stella del momento, l’economista Abel Aganbeghian. Schierati in prima fila erano le massime autorità del partito napoletano e regionale, in attesa di fargli la fatidica domanda. Al convegno Aganbeghian annunciò che in economia Gorbachev voleva contemporaneamente riforme e crescita del prodotto lordo e riempì la lavagna di numeri in puro stile sovietico. L’interprete ufficiale Osvaldo Sanguigni e io ci guardammo con scetticismo. Come era possibile far andare a ritmo accellerato le fabbriche mentre si cambiavano tecnologie e organizzazione?

Osvaldo Sanguigni è un esemplare perfetto dell’approccio «interno»: è stato un «figlio del partito» come si diceva una volta, ha studiato economia all’Università di Mosca, ha vissuto in Urss tanto da poter interloquire con i russi senza essere imbrogliato come capitava e capita ai non russi. Ha raccolto materiali per raccontare la vicenda Gorbachev sin dall’inizio, partecipe delle speranze del suo partito, sino a che fu realistico sperare. Il libro appena pubblicato (Il fallimento di Gorbaciov, manifestolibri, pp. 280, € 22) è la versione ridotta di un tomo dove l’autore aveva pazientemente dato conto di una mole enorme di documenti. Discorsi di politici, posizioni di intellettuali e di economisti, inchieste di giornali. Nulla di fantasioso, ogni parola documentata.

Tanto paziente lavoro servirà agli storici quando arriverà il tempo di raccontare la fine dell’Urss sine ira ac passione. Al momento il racconto di Osvaldo è minuzioso ma i nomi e i fatti enumerati sono ormai in pochi a ricordarseli. La sua tesi è che il fallimento di Gorbachev deriva in grandissima misura dal fallimento dell’economia rimasta troppo sovietica. La sua opinione è speculare a quella di Ottorino Cappelli (Demokratizatsiya. La transizione fallita, Guida editore, 2004) il quale imputa il fallimento alla politica rimasta troppo sovietica. Gorbachev si servì della democrazia diretta, del presidenzialismo e del populismo invece di costruire una solida democrazia rappresentativa. L’approccio di Ottorino Cappelli è un ibrido, usa con maestria le fonti interne ma le sue chiavi interpretative vengono in buona misura d’oltreatlantico. E dunque la liberaldemocrazia è la stella che poteva illuminare anche la terra dei soviet.

Per Cappelli al posto dei referendum popolari si dovevano costruire partiti di governo e di opposizione, per Sanguigni al posto di riforme metà mercato metà piano si doveva trasformare l’apparato strategico-militare sovietico in industrie per il consumo domestico. Dal loro punto di vista hanno ragione entrambi, solo che l’uno fantastica sul luogo, l’altro sbaglia il tempo. Forse (ma proprio forse) c’è stato un momento in cui il governo dell’Urss poteva dare la priorità al consumo domestico invece di inseguire la parità strategica con gli Usa. Ma non l’ha fatto e le forme della politica e la struttura della società hanno mantenuto l’impronta originaria. Non vi erano le condizioni per la transizione dal piano al mercato, dal governo di partito a un sistema di partiti, modello europeo anni settanta.

L’alternativa all’esistente era la distruzione dell’esistente, la fine dell’Urss. Ed è quello che è successo a opera di Gorbachev. Alla vecchia domanda «ce la farà Gorbachev?», la risposta appropriata è «sì, Gorbachev ce l’ha fatta a liquidare l’esperimento sovietico». Dopo 74 anni di guerre «di classe», «fredda», «civile», Gorbachev, figlio e nipote di contadini, ha alzato le bracce e si è dichiarato vinto. Nella storia è un caso unico: un capo politico, più potente di un re, che rinunzia al suo potere perché non crede più in esso. Dubita della capacità del suo paese di far fronte al capitalismo trionfante, alla scienza e alla cultura borghese dominanti. Dubita del presupposto originario dell’esistenza dell’Urss, della possibilità che ex operai e contadini fossero capaci di far andare l’economia, di governare il paese. E dopo aver studiato, avute esperienze amministrative, fatta la massima carriera politica, lui il figlio di contadini di Stavropol, si convince che lui, il suo governo, il suo partito, la sua gente hanno perso. E da segretario generale del partito comunista, persuasosi delle ragioni degli avversari, imbocca il percorso distruttivo dell’esperimento e dell’Unione Sovietica.

All’epoca gli avversari più importanti si chiamavano Ronald Reagan e Margareth Thatcher, e poi vi erano i tanti loro alleati. Tutti entusiasti della imprevedibile ritirata, consapevoli che la scomparsa dell’esperimento sovietico creava vantaggi nei confronti degli avversari di casa propria. E così infatti è stato, persino al di là delle più ottimistiche aspettative.

Intanto lui, il rex destruens, si prestava a fare il testimonial per la Pizza Hut, in un ristorante sulla Piazza Rossa.