Su che si vota il 25 giugno? Su niente. Il problema è la controriforma della Costituzione che la Casa delle libertà s’è fatta da sola a proprio uso e consumo come fosse un regolamento di condominio, la soluzione c’è già ed è «la ripresa del dialogo» fra maggioranza e opposizione per fare un’altra riforma il più simile possibile a questa ma concordata. Che vinca il no o che vinca il sì, dal 26 si ricomincia a discutere tutti insieme appassionatamente di poteri del premier, federalismo fiscale, bicameralismo, senato delle regioni eccetera eccetera. Forse in una nuova bicamerale forse in un’assemblea costituente, dice serafico Vannino Chiti, o forse in una convenzione, architetta Giulio Tremonti al seguito di Augusto Barbera. Pare di sognare. In che anno siamo, nel 2006 o nel 1996? Siamo tornati punto e a capo, a sfogliare la margherita fra commissioni inconcludenti e assemblee costituenti improponibili come prima della bicamerale di D’Alema.
Non è l’appello al dialogo che scandalizza: lavorare sulle larghe convergenze, in materia di Costituzione, è il minimo di civiltà politica che una democrazia dovrebbe darsi. E’ la cancellazione di dieci anni di storia politica, il condono a chi (nel centrodestra con la controriforma complessiva, ma anche nel centrosinistra con la riforma del titolo V) questo minimo di civiltà l’ha allegramente ignorato, l’avallo della strumentalità del tormentone sulle riforme all’onda politica del momento, la delegittimazione non più strisciante della Carta del ’48 ridotta a uno stato perenne di provvisorietà e aleatorietà, la derubricazione del referendum a sondaggio, l’ostinazione su un’agenda di riforme dell’ordinamento incantata come un disco rotto. Berlusconi non avrebbe mai aperto al dialogo, o autorizzato il fido Tremonti a farlo, se non avesse capito dal voto alle amministrative che non tira aria di rivincita e che al referendum rischia di prendere la terza batosta in tre mesi; e si mette la maschera dialogante oggi con la stessa disinvoltura con cui se la tolse nel ’98 a un passo dall’approvazione in parlamento della bozza di riforme licenziata dalla Bicamerale. E Fassino è ben lieto di raccogliere l’invito, che lo mette a sua volta al riparo da un’eventuale sconfitta al referendum e, in caso di vittoria, lo toglie dall’imbarazzo della gestione di un no che voglia dire no e lo autorizza a interpretarlo come un no che vuole dire ni: no alla riforma della Cdl, sì a una riforma dello stesso tipo ma un po’ più presentabile. E chi votando no vuole dire proprio no, alla riforma della Cdl e al tipo di riforma che ci viene in varie salse proposta da dieci anni, da chi sarà rappresentato e interpretato?
Dal ’96 a oggi non è passato solo un decennio di nevrotica transizione italiana: è cambiato il secolo.
La storia e la tecnica ci hanno messo di fronte a fatti e contesti nuovi, dalla costruzione europea ai problemi di bioetica, dal cambiamento dei rapporti fra i sessi alle nuove tecnologie del controllo individuale e sociale alle trasformazioni del mondo del lavoro, che richiederebbero non una revisione ma un rilancio dei principi costituzionali, delle garanzie e dei diritti che ne derivano: come autorevoli giuristi, da Rodotà a Zagrebelsky, non mancano di ripetere in queste settimane, nell’indifferenza dei vertici «dialoganti» del centrosinistra.
Invece siamo destinati a sorbirci l’ennesima bozza e controbozza di riforma sui poteri del premier e dintorni, nel solco ormai ventennale del culto del dio-governabilità. O l’ennesima bozza sulle competenze delle regioni e dello stato, nel culto delle divinità padane. La storia può attendere. La delegittimazione della Costituzione, invece, continua, aggravata dalla «sdrammatizzazione» del referendum. A forza di dire che la ripresa del dialogo è lì pronta sia che vinca il no sia che vinca il sì, il risultato sarà che a votare ci andranno in pochi, e che il ceto politico «bipartisan» si sentirà ancor più autorizzato a fare della Carta fondamentale quello che vuole, come fosse cosa sua e non nostra. Non lasciamola nelle sue mani.