Il realismo magico di Celestini al servizio della lotta di classe

La pecora nera , spettacolo presentato da Ascanio Celestini nell’ottobre del 2005 e quindi diventato un libro edito da Einaudi nell’anno successivo, sembrava un lavoro di passaggio verso una nuova fase nella produzione drammaturgica dell’attautore romano. La transizione sembra ormai compiuta con l’ultima pièce, Appunti per un film sulla lotta di classe , che Celestini ha proposto, in fase di studio, al Piccolo di Milano nel maggio dell’anno passato e ora sta portando in tournèe in giro per l’Italia.
Con quest’ultimo lavoro l’artista ha ormai abbandonato quello sfondo romano tra fascismo e boom economico dei suoi primi spettacoli, collocando la pièce in un’attualissima contemporaneità ed investigando questioni sociali legate al presente (secondo il consueto metodo produttivo dell’attautore, la drammaturgia dello show è la risultante di una “ricerca sul campo” snodatasi attraverso interviste e dichiarazioni che lo stesso Celestini ha raccolto dai testimoni diretti delle vicende di cui tratta sulla scena). In particolare – attraverso il suo personale stile magico/realista, surreale e straniante, per quanto qui innervato da una maggiore venatura di pungente sarcasmo – Celestini racconta dello smarrimento della coscienza di classe presso i ceti lavoratori italiani, in conseguenza dei processi di terziarizzazione dell’economia del Bel Paese e della diffusione della precarizzazione del lavoro. Nello spettacolo, questo contesto post-industriale va delineandosi attraverso una sequenza dichiaratamente frammentaria di racconti e aneddoti, scanditi da intermezzi musicali e song didascalicamente brechtiani nella funzionalità drammaturgia, ma d’atmosfera popolareggiante per le soluzioni musicali in cui trovano espressione (l’attore è accompagnato in scena da Matteo D’Agostino alla chitarra, Gianluca Casadei alla fisarmonica, Roberto Boarini al violoncello). A differenza dei precedenti lavori, imperniati su narrazioni organiche e strutturate, si tratta di uno spettacolo concepito come un montaggio di “appunti” che costituiscono un corpus di narratività eccedente i limiti di durata dello show: in scena, Celestini seleziona solo una parte di questi singoli apologhi e li compone in una scaletta potenzialmente variabile, all’insegna di una testualità mobile che – nelle intenzioni dell’attautore – dovrebbe essere propedeutica alla futura realizzazione di un disco o di un film, come appunto recita il titolo della pièce.
Sembrerebbe quasi di riconoscere nel percorso artistico di Celestini una sorta di progressiva politicizzazione che dalla tradizione delle fiabe popolari – nucleo fertile della sua ispirazione originaria, concretatasi nella trilogia Milleuno – è maturata attraverso le aporie della Storia (le tragedie che un’umanità marginale, dolente eppure vitalistica, si è trovata a subire per la cupidigia e l’ignavia delle classi dirigenti), fino ad illuminare le attuali contraddizioni che della Storia stessa sono il portato ed il lascito. Come se, dopo aver indagato le radici della nostra democrazia al tempo della Resistenza ( Radio clandestina ), dopo aver svelato la standardizzazione delle coscienze indotta dalle logiche del consumismo ( La pecora nera ), Celestini intendesse ora prendere posizione nei confronti delle distorsioni, politiche ed economiche, della società contemporanea. In particolare, molte delle storie che Ascanio racconta in Appunti denunciano la spersonalizzazione alienante del lavoro precario e la perdita di identità e di consapevolezza dello sfruttamento che deriva da questa stessa alienazione. Quell’identità e quel senso di appartenenza comunitaria che gli operai di Fabbrica – altro suo lavoro – ricavavano invece dall’esperienza di un lavoro collettivo, nelle industrie o nelle miniere, che emancipava dalla povertà ed istituiva legami umani e sociali. Ora Celestini ironizza sulla passività e rassegnazione con cui la società italiana, sedotta dal mito del benessere materiale, sembra aver accettato lo sfruttamento padronale ingenerato dai contratti “atipici”: il protagonista e voce narrante dei vari apologhi che compongono lo spettacolo è un operatore di call-center che, contrattualizzato come collaboratore a progetto, si ritrova a lavorare a cottimo guadagnando al massimo 85 centesimi a telefonata.
Ma la precarietà lavorativa determina anche e soprattutto un senso di provvisorietà esistenziale: ecco allora che il contratto a termine corrisponde ad una metaforica bomba a orologeria che il datore di lavoro consegna al dipendente al momento della stipula del contratto e il cui timer scandisce i di lui bioritmi, fino al momento dell’auspicato rinnovo della collaborazione. Di fronte a queste contraddizioni che inquinano la convivenza umana sembra non esserci alcuna possibilità di soluzione, da quando almeno sono state rigettate come inattuali tutte quelle utopie di riscatto ed emancipazione sociale che hanno accompagnato la storia dell’Otto-Novecento. Ecco quindi che l’Io narrante non esita a dichiararsi “comunista” (“Io sono comunista” ripete Celestini nel corso della pièce), consapevole tuttavia che i comunisti ormai sono come i marziani: entità fantasmatiche che afferiscono al mondo dell’immaginazione piuttosto che all’attualità politica, impossibilitati di incidere nel contesto storico ed operare in esso una trasformazione in senso realmente democratico. Eppure lo spettacolo si conclude con una profezia escatologica sull’inevitabilità ed imminenza della rivoluzione: «Tra cinque minuti comincia la rivoluzione» canta Celestini, mentre la fisarmonica intona Bandiera rossa . Insomma, quella di Ascanio sembra essere non solo una denuncia dello sfruttamento padronale (lo spettacolo è nato su “commissione” della Cgil per celebrare i 100 anni dalla fondazione), ma anche un garbato j’accuse rivolto nei confronti di quelle stesse istituzioni della sinistra moderata che si sono rese corresponsabili di una presunta modernizzazione, tradottasi invece in un sostanziale adeguamento alle dinamiche economiche neoliberiste.
Oltre a confermare quella svolta tematica che, nel percorso artistico di Celestini, si è prodotta con La pecora nera , Appunti segna anche un tentativo di superare il clichè performativo di tanto teatro di narrazione: Ascanio rinuncia alla canonica solitudine dell’affabulatore per interagire maggiormente con gli strumentisti dell’orchestrina, rivolgendosi ad essi quali possibili interlocutori intrascenici, in una sorta di teatro-canzone in cui il performer alterna il recitato al cantato (si sarebbe tentati di riconoscere questa stessa esigenza di trascendere lo schema del solista narrante anche nel Paolini di Song n. 32 ). Persino la partitura musicale non si limita più, come in alcune precedenti produzioni, ad accompagnare il racconto, contribuendo ad evocare l’atmosfera paesana e popolare suscitata dalla comunicazione per verba ; qui le canzoni, semanticamente autonome rispetto al logos e concentrate soprattutto in una lunga sezione di bis conclusivi, assolvono una funzionalità esegetica, concretizzando in rime e ritmi, metafore ed allegorie, la morale dello show («Maledetto il denaro che i viventi confondi», canta ad un certo punto).
E il pubblico applaude, riconoscendo il valore di un percorso artistico, che non smarrisce il senso della ricerca, ma anche sottolineando la necessità che di lavoro, dignità e libertà, di rivoluzione si parli ancora, e di più.