Elsa Triolet e Viktor Sklovskij si incontrarono a Berlino nel 1922. «Ci amavamo – ricorderà lui molti anni dopo – lei aveva sei o sette anni meno di me ma sembrava più matura, perché io ero il prototipo del ragazzo che non cresce mai». In realtà gli anni di differenza erano solo tre e le prove a carico del ragazzo che non cresce mai, quindi, risultano meno schiaccianti di quanto non voglia farci credere l’autore. Forse perché è solo dell’eterno adolescente il talento della precocità (e precoce, Sklovskij, lo è stato al di là di ogni dubbio) più probabilmente per una sorta di inclinazione dell’animo, quella stessa tendenza a «percepire il mondo ogni volta come se fosse la prima» che l’immaturo patisce e della quale il formalista russo, invece, studia le liturgie. In ogni caso la relazione tra Sklovskij e la Triolet, che alla fine degli anni ’20 sarebbe diventata la compagna di Louis Aragon, ebbe vita breve. «Un giorno – ricorda lui – in una discussione che sembrava uguale alle altre, mi si scatena l’ira, un’ira fredda evidentemente covata. Io non ero neppure allora un tipo iracondo, eppure mi scagliai contro la stufa. Ovvio che quel pugno era un pugno straniato. Finì un amore stracarico di emozione e Zoo ne fu la proiezione letteraria». Con questo «pugno straniato», al di là della vicenda amorosa, veniamo proiettati al centro di uno degli aspetti più affascinanti e controversi della riflessione formalista, quello relativo al rapporto tra la vita e l’arte.
Una avventura dello sguardo
Nel 1968, sollecitato da Giancarlo Pajetta, Enzo Roggi intervistò Viktor Sklovskij per le pagine culturali dell’«Unità». L’intervista integrale appare oggi per la prima volta in un piccolo volume pubblicato da Sellerio, Le autoblinde del Formalismo, che ha il merito di restituire tutto il fascino e la complessità di una delle «avventure dello sguardo» (come Derrida dirà dello strutturalismo) più significative del ‘900. Un’avventura, quella del metodo formale, animata dalla volontà di proteggere la letteratura dai predicati della psicologia, dell’umanesimo e delle impressioni soggettive, alla ricerca di una costante interna ai fenomeni estetici, lo straniamento, indipendente dal brusio di quanto pure la condiziona, ma che non pertiene al lavoro del critico. È questo, dirà poi Trotskij, il «merito non piccolo» del formalismo, l’aver colto una dimensione del lavoro poetico che lo emancipa «dallo stadio dell’alchimia per raggiungere, finalmente, lo stadio della chimica». Una dimensione artigianale, laica, illuminista e immanente nella quale, dichiara Sklovskij, «le nuove forme artistiche non compaiono per esprimere un diverso contenuto rispetto alle vecchie, ma perché le vecchie forme hanno cessato di essere arte». Nel cambiare il nome alle cose per renderle vive, però, pur rinunciando al conforto di qualsiasi realtà socialmente e giuridicamente organizzata, l’artista di Sklovskij non è affatto rinchiuso, come vorrebbe Hans Robert Jauss, in una sorta di autismo formale. Se l’arte sta tutta dalla parte dei procedimenti e della posizione che l’opera riesce a occupare all’interno dei sistemi formali e della loro storia, la trasformazione dell’oggetto, il cambiare nome, è pur sempre un avvenimento «che mani diverse dalle mie non possono produrre». È ancora la vita, quindi, intesa come singolarità dell’artista, a sostanziare quanto l’arte sviluppa nel registro dei linguaggi che le sono propri e che la differenziano, per esempio, dall’astronautica o dalla biologia. Una vita, però, che solo la forma rende tale, che disgiunta dalla forma non è vita e che instaura quindi con l’arte un rapporto simbiotico: «Non esiste contenuto che produce una forma – spiega Sklovskij nel corso dell’intervista – esiste una forma capace di dare senso al contenuto, senza di che esso resta nel limbo della sostanzialità». Per questo l’estetica «è impulso vitale primigenio legato alla sopravvivenza», perché «da quando è sceso dall’albero» l’uomo ha dovuto inserire se stesso in una visione che gli consentisse di orientarsi. Ecco come l’intuizione fondamentale del formalismo, covata tra le pagine dei classici russi o del Tristram Shandy, ne sfonda il margine per tendere la mano alla ricerca antropologica. Non a caso uno dei maggiori interpreti letterari dell’antropologia novecentesca, Elias Canetti, parlerà dello scrittore come di un «custode della metamorfosi» per molti versi contiguo all’universo estetico di Sklovskij, per il quale «l’arte è il modo in cui spostiamo, straniamo la vita cercando di ricostruirla mentre cambiamo il nostro modo di percepirla». Esattamente qui, sul confine tra spostamento e ricostruzione, passaggio da una visione alla visione successiva, nella produzione di una forma adeguata alla rappresentazione dinamica di quanto ci accade (e che solo aderendo a una forma ci può accadere), si colloca il ragazzo mansueto che prende a pugni la stufa. Di lui – o meglio: del libro di memorie che quel ragazzo pubblicherà un anno dopo, a soli trent’anni – Walter Benjamin scriverà che «la sua forma non risiede nell’esposizione, ma, al di qua di essa, nell’esperienza e nella percezione stessa».
Con il gusto della trasformazione
Ed è nel rapporto tra forma e vita, alla luce del principio che regola la necessaria determinazione formale dei contenuti dell’esperienza, che l’intervista di Enzo Roggi restituisce l’anziano critico letterario al precocissimo fondatore della «Società per lo studio del linguaggio poetico» di Pietroburgo, all’amico di Majakovskij, all’eroe per caso della Rivoluzione di Febbraio, all’innamorato di Elsa Triolet e al ragazzo che non cresce mai per non intrappolare il presente nelle forme del vissuto. Un ragazzo che a settantacinque anni si diverte a giocare con l’intervistatore e con il lettore, ne anticipa le mosse, ne smonta i pudori e ne esaspera le attese, rovesciando formule, destini e sentenze sul banco di prova di un’ironia insaziabile. Perché, dice Viktor Sklovskij, «non puoi amare la vita se non la trasformi» e «non puoi accettare il mondo se non percependolo, sognandolo rovesciato».