Il quadro comune che non c’è più

Sinistra radicale Anni 80-90, la diaspora culturale ha colpito anche noi

Non vorrei dare l’impressione di prenderla troppo alla lontana, solo penso che concentrandosi esclusivamente sulle necessità più urgenti si riesca a vedere bene qualche albero ma si perda di vista il bosco. Per capire la situazione nella quale ci troviamo una premessa mi pare indispensabile: a dispetto di tanti profondi rivolgimenti, siamo ancora ben dentro l’onda lunga della «rivoluzione conservatrice» avviata da Reagan e Thatcher nei primi anni Ottanta e trionfata su scala planetaria con il «glorioso» biennio 1989-91. Si è trattato di una vera e propria «rivoluzione passiva» che ha profondamente modificato i gruppi dirigenti dello schieramento sconfitto. Non è scorso sangue (non qui da noi, almeno) ma si è compiuta un’autentica mutazione antropologica che ha rapidamente trasformato schiere di intellettuali e uomini politici comunisti e socialisti in ardenti seguaci del liberalismo. Capitalismo e «libero mercato» (cioè uso massiccio dei poteri e delle risorse pubbliche a beneficio del capitale) sono divenuti nel breve volgere di un decennio le divinità di un culto intollerante che ha unificato gran parte del ceto politico e intellettuale di tutta Europa. Questo lo sappiamo, ma tendiamo a dimenticare che la storia riguarda da vicino anche noi che ci chiamiamo «sinistra di alternativa». Ci riguarda non perché ci siamo convertiti alla nuova religione, che – a dispetto di quanti scambiano i propri desideri per realtà – resta saldamente egemone nel centrosinistra. Ci riguarda perché la frammentazione delle nostre forze e dei nostri riferimenti politici e culturali è anch’essa frutto di quella sconfitta. Se non partiamo da qui, non faremo molta strada perché saremo tentati di attribuire a cattiva volontà difficoltà che discendono invece dai processi reali con cui dobbiamo fare i conti. L’attuale diaspora dei gruppi dirigenti della sinistra di classe è l’effetto dello scardinamento della cultura condivisa che, pur attraversata da differenti linee di pensiero, aveva accomunato le diverse anime del movimento operaio sino a tutti gli anni Settanta.

Attualmente un comune quadro di riferimento non c’è più. Mi limito a un paio di esempi, tra i tanti possibili. Il lavoro salariato: nessuno, ieri, ne avrebbe messo in discussione il ruolo decisivo ai fini della trasformazione del modello sociale; oggi rischiamo di considerarlo marginale (nonostante governo e padronato non siano meno di prima attenti a colpirne i diritti) e discutiamo persino sulla sua esistenza (con buona pace delle statistiche che ne attestano la costante espansione). La cosiddetta società civile: ieri avevamo ben chiaro che vi albergano anche gli spiriti animali del capitalismo, che è terreno di sopraffazione, arena di particolarismi tanto più minacciosi in quanto saldamente collegati al sistema dei poteri statuali; oggi ci abbandoniamo volentieri alla celebrazione delle sue pretese virtù naturali, consideriamo con sospetto tutto ciò che è Stato (non comprendendo come mai anche la destra si impegni a demolirlo) e addirittura teorizziamo la natura demoniaca del potere (dimenticando da un lato quanto già Marx scrisse riguardo al suo radicamento sociale e alla sua natura diffusa, dall’altro ciò che tutte le esperienze rivoluzionarie hanno insegnato a proposito della necessità di un potere in grado di difenderne le conquiste).

Questo è lo stato dell’arte e non sarebbe sensato prescinderne. Ma tutto ciò che significa? Che la convergenza programmatica della sinistra di alternativa e l’unità d’azione delle forze oggi all’opposizione non sono obiettivi prioritari? Che liberare quanto prima il paese da Berlusconi e dal suo ignobile governo non costituisce la prima delle urgenze? Tutt’altro. Significa avere ben chiaro il quadro entro cui questi sforzi debbono essere compiuti, pena il loro fallimento. Significa che occorre non scambiare per impuntature divergenze e dissensi reali. E significa evitare con cura qualsiasi scorciatoia organizzativistica, che si risolverebbe nell’autopromozione dell’ennesimo drappello di generali senza esercito.

D’altronde, se tra quanti parteciperanno agli appuntamenti del 15 e del 16 gennaio prevarrà la volontà di ascoltare, sarà possibile fare un grosso passo in avanti nella costruzione di quella «sinistra di alternativa» che tutti, a parole, dichiarano di volere. Al di là delle differenze culturali e politiche approfonditesi nel corso dell’ultimo quindicennio, esiste infatti ancora una solida base comune, fatta di bisogni, di istanze, di convincimenti e di valori, che unifica quello che un tempo chiamavamo «popolo della sinistra». Guardiamo a che cosa è successo in Italia dal fatidico luglio del 2001, dai primi scioperi della Fiom e dalle drammatiche giornate di Genova. Milioni di persone sono scese in piazza decine di volte contro la guerra, contro la distruzione dei diritti del lavoro, contro lo smantellamento della scuola e dell’università pubbliche, contro lo scempio della Costituzione, contro le devastazioni prodotte dal neoliberismo.

Quei milioni di persone che cosa vogliono l’hanno detto a chiare lettere, e ora si tratta di prenderne atto. Non occorre impegnarsi subito in dibattiti sui massimi sistemi (che pure – concordo con chi lo ha ribadito – saranno, a tempo debito, necessari). È sufficiente, per il momento, raccogliere gli elementi di programma già depositati dal protagonismo dei movimenti che hanno tenuto la scena politica in questi tre anni e mezzo: no a qualsiasi guerra; una nuova scala mobile; ritorno alla Costituzione del `48; revisione di Maastricht per una politica di piena occupazione e di rilancio del welfare; abrogazione delle leggi di Berlusconi (30, Bossi-Fini, Moratti, procreazione assistita, pensioni e ordinamento giudiziario). Fissare questi obiettivi e vincolare tutti i soggetti che dichiarano di riconoscervisi (a cominciare dai partiti della «sinistra di alternativa», sui quali incombe l’onere del confronto politico-programmatico con le forze moderate del centrosinistra) a comportamenti coerenti con il loro perseguimento sarebbe un risultato importante, all’altezza delle aspettative che accompagnano la preparazione delle assemblee. Un risultato importante, che è pienamente alla nostra portata.

Certo qualche preoccupazione rimane. Non si capisce perché, nonostante tutti assicurino di concordare sull’urgenza del confronto sui contenuti, da un anno non si faccia che discettare di formule e di candidature. E non si capisce come mai, benché tutti spergiurino di volere dare efficacia politica alla «sinistra di alternativa», sia infine toccato a un giornale di assumere l’iniziativa di convocarne gli stati generali. Tante cose non si capiscono. Ma pazienza: quel che conta ora è che ciascuno si rimbocchi le maniche e faccia la propria parte. Inerzia, scetticismo, sussiego sono colpe che non ci verrebbero perdonate.