Il pubblico impiego rischia l’incendio

Le grandi manovre sul pubblico impiego – cambiamenti legislativi, regolamentari, organizzativi – stanno naturalmente sollevando le preoccupazioni dei diretti interessati. Anche perché questi cambiamenti avvengono sotto l’incalzare di «una campagna diffamatoria e criminalizzante» che ha come capofila riconosciuto il prof. Pietro Ichino, giuslavorista di origine Cgil ma ormai diventato «ariete d’assalto» dei giornali confindustriali, Corriere della sera in testa.
A dare voce alle preoccupazioni degli statali è in questo momento soprattutto la Cub-RdB, sindacato di base che negli anni ha acquisito un grande peso nella pubblica amministrazione (p.a.). E lo ha fatto sia con una puntuale «decostruzione» dei principali luoghi comuni agitati sul tema, sia con una civile contestazione alla presentazione del libro del prof. Ichino contro i «nullafacenti». Veramente sfortunato, quest’ultimo. Ha fatto buon viso a cattivo gioco, invitando i sindacalisti RdB a partecipare alla discussione, salvo poi doverli far respingere per «esaurimento dei posti in sala». Inevitabile, a quel punto, che ogni successivo partecipante all’incontro finisse malamente apostrofato («buffoni» e «fascisti») dai manifestanti. Se avessero potuto sentire quello che poi ha detto il livello dei fischi sarebbe probabilmente aumentato.
Nessun dubbio, anche per le RdB, che sia «indispensabile individuare una nuova funzione e un nuovo modello», ma «un conto è razionalizzare la p.a. per renderla più vicina al cittadino», un altro è «trasformarla in uno dei tanti servizi di un modello sociale funzionale al profitto». Sotto tiro è la logica delle privatizzazioni e esternalizzazioni che, ad esempio nel settore del controllo e dell’esazione fiscale, ha prodotto ben 12 diversi soggetti (pubblici, semipubblici, privati) che concorrono allo stesso obiettivo senza minimamente dialogare tra loro.
Che il modello non funzioni, è insomma certo. Sulle cause, però, la diagnosi è molto distante dalla vulgata mediatica, fino a delineare un’intenzionale «scelta dell’inefficienza» per prepararne più facilmente lo smantellamento. Una riprova arriva esaminando l’argomento della pretesa «ingovernabilità» dei lavoratori del settore. Ci sono infatti «tutti gli strumenti di gestione e controllo, dall’impianto disciplinare alla possibilità di licenziamento per giusta causa, alla mobilità volontaria e di ufficio, alla cassa integrazione (la messa in disponibilità)». Il fatto che «per prassi» non siano usati non può essere addebitato a chi lavora; semmai al clientelismo politico, che ha fatto per decenni del pubblico impiego terra di conquista.
Smentito dai fatti anche il refrain sul numero «eccessivo» di statali in servizio. I 250.000 precari (senza contare la scuola) stanno lì a dimostrare come il blocco del turnover abbia lasciato funzioni essenziali scoperte: e non ha senso affermare che siano i precari a lavorare al posto di quelli «col posto fisso», perché allora si dovrebbero licenziare (o peggio) tutti i dirigenti che hanno nei loro reparti un precario. Senza parlare del «piccolo dettaglio» che i dipendenti pubblici sono stati assunti per concorso e debbono prestare giuramento al momento dell’ingresso al lavoro (con le conseguenze del caso).
Ma la chiave dello «smantellamento» della p.a. viene individuata nel combinato disposto tra «memorandum» ministeriale e «authority per la valutazione delle strutture e del personale». Con il primo si vuole introdurre un «criterio di produttività» (peraltro «difficile da misurare», viene riconosciuto dagli stessi proponenti); con la seconda si va a esautorare l’attuale dirigenza («prona ai partiti»), aprendo la strada alla sua sostituzione con «tecnocrati» di incerta provenienza.
Quanto al rapporto con l’utenza, viene proposta un’interessante distinzione tra quella «sociale» (o «di sportello»; effettiva, insomma) e quella «strutturata» (associazioni di consumatori e similari), in cui viene riconosciuta una filazione più o meno occulta con i partiti politici e i loro «progetti di riforma»). E’ qui che affonda la certezza degli RdB di non essere «isolati», nonostante la campagna mediatica e l’asserita «complicità» dei sindacati confederali del settore, apertamente accusati di star percorrendo ormai la strada che li porterà ad essere «fornitori di servizi» e «gestori di fondi pensione»; non più «rappresentanti dei lavoratori». Il clima si surriscalda intorno a nodi decisivi; e anche la vis polemica fatica a essere contenuta.