Il 29 settembre del 1906 si apre, a Milano, il quarto congresso della Resistenza, il primo, costituitivo, della Confederazione Generale del Lavoro, che nasce, appunto, il primo ottobre del 1906, quale organo confederale di raccordo e direzione delle strutture camerali, delle federazioni di mestiere e delle leghe.
Al congresso di Milano si giunge per iniziativa del segretario della Fiom Ernesto Verzi e di quel nutrito schieramento sindacale riformista, che comprendeva uomini quali Rigola, D’Aragona, Quaglino, Reina, Chiesa, che nel corso dell’anno si era proposto l’obbiettivo di superare la crisi del Segretariato Centrale della Resistenza, che non riusciva a svolgere un’adeguata funzione nazionale di coordinamento e rappresentanza del mondo del lavoro; ma anche di uscire dalle secche di un’altrettanto grave crisi politica che paralizzava la sinistra socialista e democratica, priva di iniziativa riformatrice di fronte all’abile manovra di Giolitti che, nel novembre del 1904, dopo avere convocato elezioni politiche anticipate, nel nuovo parlamento a maggioranza conservatrice, aveva progressivamente dovuto rinunciare al suo iniziale programma liberale di riforme sociali ed economiche.
D’altro canto, già a partire dal 1904 il grande slancio della prima rivoluzione industriale si era arenato in una congiuntura sempre più depressa, anche per effetto del sopraggiungere della brusca crisi economica internazionale che esploderà poi nel 1907.
Le forti conquiste salariali e normative del 1901-1902 e l’imponente diffusione degli organismi sindacali che ne seguì, venivano ora fronteggiati dalle classi proprietarie con una crescente intransigenza e ostilità, che si rivolgeva in larga parte anche contro il liberalismo giolittiano e il riformismo rivendicativo sindacale. Il faticoso e per molti versi precario equilibrio con il quale si era usciti dalla spaccatura verticale del Paese di fine secolo – in virtù dello sciopero generale di Genova del 1900 – e si era delineata una ipotesi di prima modernizzazione della politica e delle relazioni economiche, veniva ora oscurata da questo mutamento di prospettiva. Mentre Giolitti o una parte della classe politica si riposizionava declinando il liberalismo con il trasformismo parlamentare, la rinunzia alle riforme sociali e soprattutto a quella fiscale e la repressione violenta dei moti nelle campagne, la sinistra politica, perdendo il suo interlocutore governativo e il riferimento parlamentare, oscillava tra l’inconcludenza tattica dell’integralismo e l’astrattezza delle diverse correnti estreme.
Il primo sciopero generale
Non casualmente nel 1904 era stata la Camera del lavoro di Milano a prendere l’iniziativa di proclamare il primo sciopero generale nazionale quale risposta al perpetuarsi degli eccidi proletari che insanguinavano le campagne del Mezzogiorno, colpendo braccianti e minatori.
L’esigenza di dare al mondo del lavoro, che comunque vedeva ampliare la propria presenza non solo nella società e nell’economia ma anche nelle riflessioni degli intellettuali più accorti quali Luigi Einaudi, Attilio Cabiati e il gruppo della «Riforma sociale», una rappresentanza complessiva che superasse le differenze strutturali, geografiche, professionali e consolidasse le conquiste contrattuali e legislative, diveniva prioritaria nell’agenda stessa del Paese, oltre che nelle discussioni interne al movimento operaio socialista e democratico.
Questo processo era sollecitato in seguito alle difficoltà emerse nella gestione della cruciale questione della nazionalizzazione delle ferrovie che aveva evidenziato nel corso del 1905 i limiti di un movimento operaio provo di organismi nazionali di direzione delle vertenze e degli scioperi. A ciò si giunse appunto con la decisione di convocare a Milano una assise generale sindacale che raccogliesse i rappresentanti di tutto questo composito mondo per unificarlo intorno ad un principio di confederalità e insieme di rappresentanza e di direzione politica, sulla base di un programma rivendicativo concordato e sostenuto di forme di azione e di lotta tipicamente sindacali, quali gli scioperi.
L’iniziativa era al tempo stesso semplice e ambiziosa ed era anche il risultato di un lungo lavorio di contatti con le coeve esperienze di sindacalizzazione che maturavano in Europa, in Inghilterra, negli Stati uniti e nell’America meridionale e che l’intensa circolazione dell’emigrazione del lavoro aveva tessuto e rinsaldato.
Il Congresso che si apre il 29 di settembre nella sala della Camera del Lavoro, alla presenza di circa cinquecento delegati inviati da settecento leghe per un totale di duecentocinquanta mila iscritti, ha, dunque, un profilo che ad una prima osservazione può apparire non perfettamente adeguato a questo livello problematico.
I contrasti procedurali, di metodo, le pregiudiziali sui delegati e sui voti delle sezioni, la richiesta di referendum avanzata dalle minoranze e volto ad invalidare il Congresso stesso, lo scontro durissimo sullo Statuto, culminato con la netta affermazione dei sindacalisti riformisti che rifiutano qualsiasi tentativo di conciliazione che pure era contenuto nella moderata relazione introduttiva di Ernesto Verzi, segnalano non solo la vivacità del confronto, tipico delle assisi collettive del movimento operaio, ma la consapevolezza dell’importanza decisiva che questo Congresso e le sue conclusioni avrebbero avuto. Era evidente che da Milano sarebbe uscita comunque una svolta per il movimento oragnizzativo dei lavoratori, modificando i ruoli e le funzioni anche degli altri organismi nazionali costruiti negli anni precedenti, quali la Lega Nazionale delle Cooperative, la Federazione Nazionale della Società di mutuo soccorso e soprattutto il Psi e gli altri partiti e movimenti politici (dai sindacalisti rivoluzionari agli anarchici, dai «corporativi» ai repubblicani) che si richiamavano al mondo del lavoro. E che questa prospettiva fosse realistica sarà confermato qualche mese dopo, allorché, nel 1907, le funzioni e la rappresentanza del partito e del sindacato saranno regolarizzati e distinti al Congresso internazionale di Stoccarda, nel famoso documento noto come mozione di Stoccarda.
Occorre, tuttavia, tenere presente che i conflitti e gli scontri che pure caratterizzeranno quelle intense giornate solo apparentemente avranno il carattere di una semplice lotta di potere tra diversi gruppi dirigenti per conquistare l’egemonia all’interno del nuovo organismo.
In realtà, ciò che rende storicamente significativo quell’avvenimento è proprio l’irreversibilità del risultato che quegli uomini si proponevano di raggiungere, e che raggiungono: la costituzione di un organismo confederale che racchiuda in se tre elementi che segneranno il «peso» e l’originalità del mondo del lavoro organizzato nelle vicende dell’Italia contemporanea.
Questi elementi sono la politicità, incentrata sul programma rivendicativo che alimenta la funzione autonoma dell’attività sindacale confederale; la definizione di un ruolo critico nei confronti dello sviluppo capitalistico industriale, con particolare attenzione al suo andamento ciclico sia nella fase di accumulazione che in quella della riproduzione; infine la centralità del rapporto, con i lavoratori, che ha comportato l’assunzione del valore primario dei diritti e delle dignità del lavoro quale fondamento delle relazioni economiche e del patto sociale, dunque delle stesse libertà civili e politiche del paese.
Giuseppe Di Vittorio con la sua straordinaria efficacia comunicativa, esprime nel 1948 quel è stato e qual è il ruolo decisivo dei lavoratori nella costruzione della nazione: i lavoratori non sono un corpo estraneo confluito a caso nella nazione; sono una parte di essa, la più povera, quella che produce, e devono diventare sempre più coscienti della loro funzione storica di costruttori di una società migliore.
E’ questo l’autentico filo rosso che lega, attraverso l’azione e le idee di Buozzi e di Di Vittorio la CGdl nata a Milano nel 1906 con la Confederazione che si ricostituisce nella Resistenza e avrà un ruolo decisivo nell’elaborazione della Costituzione, nella rinascita economica e politica dell’Italia dopo la disastrosa sconfitta della guerra fascista e nella costruzione e consolidamento delle libertà individuali e pubbliche nella democrazia repubblicana.
* direttore della Fondazione Di Vittorio