Il presidente guerrigliero

Si presentava sempre con un sorriso luminoso, le braccia aperte in attesa di stringere vigorosamente il suo interlocutore e quella frase che aveva promosso a saluto, «a luta continua». Samora Moises Machel, il «presidente Samora» come lo chiamavano i suoi sostenitori, una vita da rivoluzionario e una morte – esattamente 20 anni fa, il 19 ottobre del 1986 – ancora avvolta nel mistero, era l’incarnazione stessa di un’epoca: quella delle lotte di liberazione che, negli anni ’70, finirono per travolgere gli ultimi e anacronistici scampoli coloniali sul continente africano.
Machel era il Mozambico, così come Amilcar Cabral era la Guinea Bissau e Agostinho Neto l’Angola. Marxisti e idealisti al tempo stesso, guerriglieri divenuti statisti, rivoluzionari che tentarono, in un periodo di grandi rivolgimenti storici, di modernizzare paesi usciti sfiancati da decenni di colonialismo feudale e destinati ad avvilupparsi in guerre civili in cui per procura si sarebbero affrontate le grandi e le medie potenze dell’epoca.
Caloroso, coraggioso, a volte collerico ma sempre attento ad ascoltare i propri interlocutori, Machel era nato nel 1933 da una famiglia contadina. Durante l’infanzia, aveva conosciuto la fame, l’inedia e l’esilio forzato in Sudafrica, allorché ai suoi genitori venne espropriata la terra per cederla ai coloni portoghesi. Fu nel corso dei suoi studi da infermiere – una delle poche professioni permesse ai mozambicani – che si distinse per le sue prime lotte politiche. Rivendicando l’uguaglianza salariale tra bianchi e neri, tuonò contro il regime dell’apartheid, in cui «il cane dell’uomo ricco riceve più medicine, vaccinazioni e cure sanitarie dei lavoratori su cui si basa la ricchezza dell’uomo bianco».
Sono i primi anni ’60: dopo l’esempio fulminante del Ghana di Kwame Nkrumah, che si affranca dalla Gran Bretagna nel 1957, la decolonizzazione si abbatte come uno tsunami su tutto il continente. Una dopo l’altra, le ex colonie ottengono l’indipendenza, sia pur spesso in un quadro di accordi economici con le ex madrepatrie. Nel 1962, in una Dar es Salam divenuta – grazie all’impulso di Julius Nyerere – un faro per le lotte di liberazione dell’Africa australe, nasce il Frente de Libertação de Moçambique (Frelimo), sotto la guida di Eduardo Mondlane. Samora si lancia nella mischia. Quando il Frelimo, due anni dopo, sceglie la lotta armata, è in prima fila. Guida gli attacchi di guerriglia nel nord del Mozambico; diventa comandante in capo; alla morte di Mondlane – ucciso nel 1969 da un pacco bomba fattogli recapitare dalla polizia segreta portoghese – prende le redini del movimento.
Sono anni duri, in cui il regime portoghese sceglie di difendere con le unghie e coi denti la sua missione civilizzatrice a sud del Sahara. La guerra impazza, tanto in Angola che in Mozambico.
Fino alla svolta: il 25 aprile 1974, la moribonda dittatura di Marcelo Caetano crolla come un castello di carte sotto i colpi della «rivoluzione dei garofani». La giunta militare che prende il potere a Lisbona, costituita per lo più da capitani che avevano servito nelle colonie, decide di darci un taglio. I soldati impegnati a fronteggiare gli eserciti di liberazione di Angola e Mozambico sono richiamati a casa. I possedimenti d’oltremare ottengono l’indipendenza. Samora Machel diventa presidente del Mozambico, capo di un sistema a partito unico a forte ispirazione leninista.
Si avviano le nazionalizzazioni; si lancia nelle zone rurali una campagna di collettivizzazione delle terre. La Maputo liberata del Frelimo diventa la retroguardia dei movimenti di liberazione che ancora combattevano in Africa australe: è qui che si ritrovano tanto i militanti dell’African national congress sudafricano quanto i ribelli della Zanu di Robert Mugabe, che si opponevano al governo razzista di Ian Smith in Rhodesia. Ma il prezzo da pagare non è certo basso; i difensori degli interessi bianchi non rimangono a guardare: il Mozambico diventa teatro di una pesante guerra civile, fomentata e finanziata in larga parte dagli stati vicini. In questo contesto difficile, Machel cerca di barcamenarsi: tiene stretta l’alleanza con l’Unione sovietica, ma non disdegna contatti sempre più frequenti con gli Stati uniti e con la Gran Bretagna. Si allontana progressivamente dal socialismo. Incontra persino il papa. Fino alla fatidica notte del 19 ottobre 1986, quando la parabola del «presidente Samora» si va a schiantare contro i monti del Lebombo, in Sudafrica. Machel sta tornando da un vertice regionale nello Zambia. Il Tupolev su cui viaggia si perde tra le nuvole e, seguendo un falso segnale radar si abbatte al suolo, uccidendo 35 dei suoi 44 passeggeri.
Imperizia dell’equipaggio? Complotto sudafricano per eliminare il presidente nemico? Cospirazione ordita da alcuni generali ribelli del Frelimo, che volevano liberarsi di un leader troppo accentratore? Molti sono i punti oscuri legati a questo evento: il segnale radar fantasma, l’assenza di un altro segnale radar da parte dell’aeroporto di Maputo, la presenza sul posto di forze di sicurezza sudafricane a pochi minuti di distanza dallo schianto. In tutti questi anni la vedova di Samora, quella Graça Machel che in seconde nozze sposerà niente di meno che Nelson Mandela, non ha smesso di puntare il dito contro il Sudafrica. Nel febbraio scorso, il governo dell’African national congress ha riaperto le indagini, per fare luce sulla scomparsa di «un nostro eroe nazionale», come ha avuto modo di dire lo stesso presidente Thabo Mbeki. Ma l’impressione è che la verità difficilmente affiorerà. E che il ricordo del «presidente Samora» rimarrà impresso nelle cassette con i suoi discorsi che ancora si vendono per le strade di Maputo e nelle parole di quella canzone che gli ha dedicato Miriam Makeba e che è ormai diventata un inno: «Maputo Maputo. A Luta continua».