Un nuovo capitolo nel confronto dell’artista con le istituzioni totali che intreccia stavolta quotidiano e memorie degli ospedali psichiatrici. «Il nostro tempo vive con l’incubo del disordine, dalle culture diverse alla paura del terrorismo. Ho voluto concentrarmi sull’oggi, rappresentando questa istituzione totale come ancora attuale. Infatti dire che si deve abolire la legge 180 è un assurdo perché in Italia si fanno ovunque elettroshock, la gente viene rinchiusa, ci sono cliniche private… Ma più che trent’anni fa si rifiutano le differenze. Per questo la Basaglia è presa di mira»
La pecora nera è un ragazzino che a scuola va male, che ha la nonna contadina col «zinale da vecchia e l’alito puzzolente», e la maestra che lo mette sempre all’ultimo banco: «È debole in matematica. È debole in geografia. È debole di cervello» e i compagni ridono quando lo vedono arrivare insieme a quella nonna che porta dietro sempre un ovetto fresco, parla strano, dice «culo» pure se di gallina e ha su sempre le calze pesanti … La pecora nera ci dice Ascanio Celestini è il primo gradino che scende, quell’espressione che da sempre usano per chiamare i «diversi», chi stride coi modelli vincenti, le norme, il conformismo del «vivere bene». E La pecora nera. Elogio funebre del manicomio elettrico è il nuovo spettacolo di Ascanio Celestini, protagonista proprio il «ragazzino debole di cervello» che conosciamo prima bimbo, poi vediamo cresciuto vivere in manicomio, poco importa se infermiere o paziente in quel confine dell’istituzione totale che nega il senso stesso di umanità. Dietro ci sono tre anni di lavoro col laboratorio Storie da legare, incontri insieme a gruppi di studenti, medici, infermieri (ripresi dall’occhio elettronico della sensibilità di Daria Menozzi) in giro per l’Italia, Roma, Parma, Reggio Emilia, Udine, Bologna, Venezia, Imola. E Perugia dove tutto ha inizio (la produzione è dello Stabile dell’Umbria) anche pensando alle rivoluzionarie sperimentazioni in materia vissute lì negli anni Settanta, la lotta che portò alla oggi criticatissima 180, la legge Basaglia sull’abolizione dei manicomi. Eppure, scrive Celestini nelle sue note, come si fa a dire che i manicomi e la loro struttura non esistono più? Il protagonista di questa storia – ma in scena si sentono anche voci registrate tra cui quella di Alberto Paolini incontrato al Santa Maria della Pietà di Roma dove è finito per quarant’anni in quanto povero e orfano – è già morto. Ha visto i cani nello spazio, ha visto esplodere New York, Londra, Madrid e non più soltanto Kabul e Baghdad. Ha visto l’ovetto Kinder che trasforma tutti i giorni in una pasqua infinita. Il latte in polvere, il vino in tetrapak, le fragole con l’aceto… «Tutti volevano morire quest’anno. Chi ha vissuto fino a oggi ha visto tutto quello che si può vedere». Non è la storia «ufficiale», sono storie di persone ma come sempre nella poesia a dolcezza stridente di Celestini ci dicono del nostro mondo oggi. Ora La pecora nera arriva all’Ambra Jovinelli di Roma, debutto stasera (fino al 5 febbraio). Celestini ci parla al telefono, diviso tra prove di scena e il lavoro per il progetto Le porte della città sulla Stanza delle sorelle Bucci.
La fabbrica, il campo di concentramento, adesso il manicomio. Qual è il punto di partenza per «La pecora nera»?
Di fondo ancora una volta il mio interesse per le storie individuali all’interno dell’istituzione totale. Dunque la fabbrica, il fascismo, situazioni che negano la possibilità di essere individui. Fino al manicomio: come può raccontare se stesso una persona che passa quarant’anni della sua vita rinchiuso? C’è qualcosa di criminale ma soprattutto di inumano. Il manicomio è inumano perché significa la negazione dell’individuo che là dentro viene messo in continua soggezione come sempre accade quando un’istituzione decide i tempi, i luoghi, la vita di una persona per farla così scomparire. In questo senso non vi è differenza tra il manicomio, il carcere, il campo di concentramento, uno genera l’altra, sono le facce di un solo meccanismo che è l’istituzione totale. La gente poteva finire per gli stessi motivi in galera, in manicomio, in orfanotrofio… E non è un caso se in tutti questi luoghi troviamo preti e suore, le autorità ecclesiastiche sono quelle che tutelano questo tipo di istituzioni.
Il tuo spettacolo arriva in un momento di attacco alla legge Basaglia, si parla di riaprire i manicomi…
Anche io quando ho iniziato a lavorare su questo progetto pensavo che i manicomi fossero spariti. Ma era un errore, come sono assurde le dichiarazioni del ministro Storace su questo argomento perché sa benissimo che non è così. I manicomi esistono sempre, si fanno elettroshock, ci sono gli ospedali psichiatrici giudiziari, le cliniche private … In questi luoghi si tolgono alle persone gli oggetti con cui sono in relazione, dicono che lo fanno perché sono cose pericolose, e però basta guardarci intorno per capire che in questa logica tutto può essere pericoloso. I lacci delle scarpe, gli occhiali di vetro che possono essere usati per ammazzarsi… All’improvviso la vita di una persona è un mucchio di oggetti in una busta di plastica. Ma cosa diventa un uomo come ci dice Primo Levi se gli si toglie tutto? C’è un altro aspetto nel manicomio oggi: prima le persone si legavano al letto coi ferri, adesso la loro sconfitta si mette in pratica con la chimica, gli psicofarmaci usati in manicomio e «fuori». Che non curano la persona, attenuano soltanto i sintomi. Così si può continuare a lavorare, la mia vicina di casa può andare al supermercato, e nessuno si accorge che è depressa… Se un tempo il «matto» si nascondeva nel manicomio che era un’istituzione nazionale, oggi che il potere è delle multinazionali si gestisce coi loro prodotti.
C’è anche un rifiuto del disagio mentale che non è mai stato superato.
Penso che la nostra società faccia più fatica a accettare una legge come la 180 oggi che trent’anni fa. Si preferisce non sapere, si vogliono solo persone belle, sane, pulite, non si sopporta la differenza. Anche solitudine o tristezza possono essere considerate malattie… Ma dentro ai manicomi trovi la stessa società che esiste fuori, la stessa ideologia, lo stesso pensiero. E non potrebbe essere altrimenti visto che è la società a crearlo. Siamo tutti d’accordo nel dire che l’elettroschock è una tortura eppure si pratica ancora, le istituzioni infatti hanno deciso che non lo è. La cosa può valere per ogni forma di violenza che invece l’istituzione non dichiara tale. Su questi temi il manicomio è molto vicino alla vita quotidiana. Il nostro tempo vive con l’incubo del disordine, le rughe, le culture, la paura del terrorismo… Per questo nella Pecora nera mi sono concentrato sul presente, il manicomio non appartiene al passato ma è un meccanismo istituzionale ancora vivo. Poi c’è un passaggio dagli anni Sessanta al 2005 ma perché seguiamo la vita del personaggio che diventa adulto… Questa urgenza del presente è perché credo che oggi si parli di molte cose del passato, la guerra, etc ma ci sono una serie di figure del presente che invece scompaiono. Mi vengono in mente i precari di un call-center: chi si preoccupa di raccontarcene le vite?
Ci sono stati incontri particolarmente importanti nel risultato del lavoro?
La ricerca in Umbria per la storia della regione in questo campo. Non ci sono cliniche private e la lotta contro le istituzioni nei manicomi umbri è una storia parallela a quanto è accaduto negli anni Sessanta e Settanta fino alla legge Basaglia. A Roma mi ha molto aiutato conoscere Adriano Pallotta, infermiere a Santa Maria della Pietà che si definisce un violento istituzionale… Grazie a lui ho capito meglio cosa significa il lavoro dentro l’istituzione, quel legame tra malato e infermiere che è determinato dalla stessa. Nello spettacolo non si capisce fino alla fine se il protagonista è un infermiere o un paziente. Ma in fondo non è importante, molti degli infermieri che ho incontrato dicono che potevano essere lì come pazienti… Vengono dalla stessa classe sociale, li prendono perché sono grossi, il «matto» ricco va nella clinica svizzera a Santa Maria della Pietà ci trovi il poveraccio… Se il manicomio come tutte le istituzioni totali è emanazione della società, per forza rappresenta le stesse regole che vigono tra i «normali».
In scena si sente anche la voce registrata di un paziente rinchiuso a lungo…
Ho conosciuto anche lui a Santa Maria della Pietà, in manicomio ci è finito per caso, perché era orfano, lì poteva imparare il mestiere da falegname… Se parli coi pazienti di Santa Maria della Pietà quasi tutti dicono che il loro ricordo più bello non è quando sono potuti uscire ma coincide con l’apertura del manicomio alla città: sono arrivati artisti, si facevano laboratori, spettacoli, mostre, c’era un sacco di gente e loro si sono sentiti di nuovo delle persone.
C’è qualcosa che ti ha colpito più di altre nelle storie ascoltate questi anni?
Pensando ancora a Paolini, la sua esperienza ci dice chiaramente che i manicomi non sono fatti per curare. Le divisioni tra i reparti non sono stabilite secondo le malattie ma per «uomini e donne» e su base del comportamento: tranquilli, medi, agitati etc. Di nuovo il legame con la società è molto evidente. Così come la tendenza a ridurre la complessità dell’individuo a un solo aspetto quando questo si discosta dalla «norma». Se uno è senza gambe però respira, mangia un gelato, ha degli affetti, una vita… Così se si è ciechi o sordi eppure diventa l’unica identità, tutto il resto viene azzerato. È come uno che abita vicino a me e mi dice: in quella pizzeria non ci vado più perché il pizzettaro è egiziano. Non vedo cosa c’entra. Fa le pizze, il fatto che sia egiziano è secondario.