Il piano energetico americano

Se n’è uscito con una combinazione di Exxon Valdez e Cernobyl”. Il richiamo alle due catastrofi planetarie è stato forse il commento meno rabbioso ma più efficace con cui è stato bollato il piano energetico di George W. Bush. A pronunciarlo, il leader dei verdi australiani, il senatore Bob Brown, una delle tantissime voci indignate che ieri si sono levate da tutto il mondo. I termini “disastro” e “crimine” sono riecheggiati da un punto all’altro del globo. “Siamo tutti criminali ambientali. Ma per gli Stati uniti bisognerà inventare una nuova categoria. Ci vorrebbe un sistema giudiziario internazionale per esaminare questo crimine” ha dichiarato, dalle isole Fiji, Patrina Demaru, funzionario del Pacific Concerne Resources Centre. Greenpeace ha agito a modo suo, scaricando una camionata di carbone davanti alla lussuosa residenza privata del vice presidente Usa, Dick Cheney, anima nera dell’amministrazione americana anche in questa circostanza. Per l’organizzazione internazionale, le misure e i fondi previsti per il risparmio energetico, non sono che una foglia di fico.
Jan Pronk, ministro dell’ambiente olandese ma anche capo del Forum delle Nazioni unite per i cambiamenti del clima ha definito il piano di Bush “uno sviluppo disastroso” per gli sforzi internazionali di tagliare le emissioni di gas a effetto serra, perché non c’è dubbio che i pesanti interventi volti ad aumentare l’offerta di energia prodotta con fonti inquinanti come il carbone e il petrolio porteranno ad un incremento delle emissioni di anidride carbonica, rendendo vani gli interventi di cui si faranno carico gli altri paesi. “Non è certo la soluzione ai problemi che ci troviamo di fronte quanto ai problemi del clima” ha detto il ministro dell’ambiente svedese, Kjell Larsson da Parigi. La Svezia, che ha la presidenza di turno dell’Unione europea, ha peraltro preso da tempo la decisione di chiudere i suoi impianti nucleari, mentre il rilancio del nucleare (“energia pulita”) è uno dei punti chiave del piano Bush. A proposito del quale Paul Leventhal, presidente del Nuclear Control Institute, un gruppo americano che si batte contro la proliferazione, parla di “invito alla catastrofe”, per tutte le ricadute di sicurezza sull’industria nucleare civile.
A far imbufalire il resto del mondo è soprattutto l’atteggiamento americano a non voler rivedere i propri livelli di consumo. Già indignava il fatto che il 5% della popolazione mondiale divorasse un terzo dei consumi energetici, con la sua gelida aria condizionata d’estate e le temperature interne torride d’inverno, per non parlare della benzina a quattro soldi. La determinazione a voler continuare su questa strada, segno di un nazionalismo e isolazionismo arrogante poggiato sullo strapotere, sembra la goccia che farà traboccare il vaso. Ma era stato tutto annunciato. Come ricordava ieri il francese Le Monde, già una settimana fa il portavoce della Casa bianca. Ari Fleischer, aveva preparato il terreno affermando che secondo il presidente Usa “il livello elevato di consumo di energia corrisponde al modo di vivere americano. E il modo di vivere americano è benedetto”. Che gli altri, dunque, siano dannati.
Fortunatamente, anche all’interno degli Stati uniti non tutti sono d’accordo con questa filosofia. Come ad esempio Leon E. Panetta, ex capo dello staff durante la presidenza Clinton, che in un commento sul Christian Science Monitor ricostruiva ieri la crisi energetica degli anni ’70, ricordando come alla fine fosse poi sfociata proprio in un cambiamento dello stile di vita degli americani, tra termostati abbassati e limiti di velocità. Uno stile di vita rapidamente abbandonato quando l’offerta di petrolio aumentò di nuovo.
Anche dal fronte politico interno sono piovute critiche. Tra le più forti quella di Dick Gephardt, leader dei democratici alla Camera, che ha paragonato il piano Bush al “rapporto annuale della Exxon Mobil” e lo ha definito “la scelta sbagliata per l’America e per il popolo americano”. Un progetto oltretutto “elaborato dietro porte sbarrate, con notevoli contributi dei dirigenti dell’industria energetica e in un modo talmente segreto che non può certo servire il pubblico interesse”.
La California, da parte sua, ha respinto il ruolo di esempio lampante che Bush, prendendo a pretesto la sua crisi energetica, ha voluto attribuirle per giustificare le sue scelte. Il governatore dello stato, Gray Davis, ha accusato il presidente di “non voler vedere l’emorragia che sta avendo luogo in questo stato. Noi siamo letteralmente in guerra con le compagnie fornitrici di energia che ci stanno dissanguando con i loro prezzi. Con tutto il dovuto rispetto, signor Presidente, i californiani vogliono sapere se lei sarà al loro fianco”.
Domanda retorica. Bastava dare un’occhiata al servizio trasmesso ieri on line dalla Bbc, dal titolo “Il piano Bush, politica o ricompensa?”, nel quale si ricordava come dalle casse delle compagnie energetiche del Texas fossero usciti circa 50 milioni di dollari per la campagna elettorale dell’attuale presidente, che allora di quello stato era governatore. Un rapido calcolo permette di dire che quell’investimento si è rapidamente moltiplicato: solo nei primi quattro mesi di quest’anno, quattro di quelle compagnie hanno registrato un aumento dei profitti di 220 milioni di dollari. Va da sé che il Texas è un campione federale di inquinamento. Ma è quello il modello prescelto, per tutti noi.