Il Perù vota il suo Chavez

Tutti i sondaggi dicono la stessa cosa: Ollanta Humala vincerà il primo turno delle elezioni presidenziali in Perù. Ma quasi tutti aggiungono che Humala perderà il ballottaggio, chiunque sia il suo avversario: il partito dei ricchi di Lourdes Flores o i resti della vecchia Apra di Alan Garcia.
«Il guerriero che vede ogni cosa», così Ollanta in aymara, in ogni caso è pronto. E sedici milioni di elettori peruviani devono decidere se insediarlo sul trono che fu di Francisco Pizarro e aggiungere un paese all’onda sismica di nazioni in via di svincolo dagli Stati uniti, oppure mantenere il paese nell’orbita del mercato, del Trattato di libero commercio, in sintesi nella scia del potente vicino. Un bivio storico delicatissimo, che arriva senza aver chiarito una questione fondamentale: chi è veramente Ollanta Humala. Un caudillo, certamente, ma anche militarista-autoritario? Un cholo che parla agli indigeni, ma anche un razzista al contrario, un racista cobrizo, con la pelle color del rame? E’ anti-globalizzazione, certo, mMa quanto pesa e dove va a finire il suo nazionalismo? E’ una scommessa, il Perù sta per giocarla con una sola seppure vaga certezza: Ollanta Humala occupa in solitudine il posto dell’opposizione anti-imperialista e anti-liberista, un luogo lasciato libero dalle macerie di una sinistra distrutta dal terrorismo, dal suo stesso settarismo, da una diaspora esplosiva le cui schegge sono finite ovunque, persino nel defunto progetto politico di Alberto Fujimori.
Il Perù esce da una legislatura politicamente stabile ed economicamente significativa, il cui conto è stato però pagato dai soliti noti, i poveri, cioè quel 48% della popolazione che vive sotto la soglia di povertà. Il presidente uscente Alejandro Toledo, l’indio che i Peace corps hanno mandato a studiare a San Francisco, è riuscito a concludere il mandato ed è quanto di meglio si può dire di lui. Scandali e scandaletti a base di corruzione, e l’urgenza sospetta nella firma del Trattato di libero commercio con Washington (ieri il prtesidente ha chiesto di poterlo firmare ufficialmente, nonostante sia in scadenza e ci sia già un referendum pronto per affossare l’approvazione parlamentare) sono i marcatori della presidenza Toledo, nata con speranze indigeniste puntualmente tradite. La crescita economica, di cui hanno goduto settori minoritari della popolazione, non ha sanato le ferite di un paese in cui l’odio etnico e nazionalista (i cholos odiano i criollos e i bianchi e ne vengono odiati, e tutti quanti odiano i cileni) ha sostituito quello politico che aveva insanguinato il paese negli anni dell’utopia assassina di Sendero. In quegli anni il tenente colonnello Ollanta Humala era, come il fratello Antauro, un ufficiale antiterrorismo dell’esercito peruviano di stanza nelle foreste di Ayacucho. Dalle forze armate – da cui Ollanta è stato definitivamente allontanato dopo aver appoggiato l’ultimo levantamiento del fratello nel gennaio del 2005 – è partita una campagna che puntava a coinvolgerlo nella guerra sporca anti-senderista, Ollanta ha replicato «bene, rendete pubblica la mia scheda» e tutto si è fermato: un esercito che non ha mai ammesso un solo omicidio non ha potuto rendere pubblico il profilo di uno dei suoi ufficiali più noti.
Sbarazzatosi delle ombre più nefaste, evitati in una maniera o nell’altra gli scandali a mezzo stampa che ogni giorno tentano di coinvolgerlo senza molto successo in qualche affare sporco – di volta in volta la complicità con l’ex presidente Fujimori cacciato a furor di popolo, quella con il suo rasputin Vladimiro Montesinos o i legami con il feroce «comandante Gonzalo», il capo di Sendero Abimael Guzman – il tenente colonnello Humala e la sua «Unione per il Perù» nata proprio per queste elezioni navigano intorno al 30% dei consensi. Robustamente in testa, robustamente sotto la fatidica soglia del 50%. Il sistema tradizionale dei partiti peruviani insegue, ma da vicino: Unità nazionale della signora Lourdes Nano viene data al 25%, il redivivo Alan Garcia e la sua Apra (formazione carica di gloria e di disgrazie, non ultimo il clamoroso fallimento dello stesso Garcia negli anni ’80, culminato con la fuga da un paese distrutto dall’iperinflazione) sono al 22%. Il caudillismo indigeno, la oligarchia abbiente e il populismo criollo si dividono quindi quattro quinti dell’elettorato peruviano. Il vincitore uscirà dal secondo turno, il 7 maggio, e sarà un mese di fuoco.
Ollanta è un figlio dell’esercito, come Hugo Chavez in Venezuela, come Lucho Gutierrez in Ecuador. Dopo l’esercito, è figlio di una madre di origini italiane, Lucia Tasso, una prolifica signora con pericolosissime propensioni alla dichiarazione roboante, come la richiesta di fucilare gli omosessuali per aumentare la moralità del paese. Ed è figlio del signor Isaac Humala, un avvocato marxista degli anni ’50 convertito al radicalismo indigenista e autore di un programma politico chiamato etnocacerismo, dal nome del maresciallo Caceres che con un esercito di contadini e indios male armati sconfisse ripetutamente il Cile alla fine dell’Ottocento. Il patriarca Isaac indirizzò i figli Antauro («stella color del rame», in quechua) e Ollanta verso l’esercito prima e la politica poi. Antauro propende per la conquista rivoluzionaria del potere e si definisce ento-nazionalista, Ollanta per la via elettorale e si definisce solo nazionalista. Nel 2000 Ollanta si ribella al presidente Fujimori con una mezza guarnigione a Tacna, finisce che Fujimori viene cacciato dal Perù e Ollanta dalle forze armate, in cui fa ritorno come addetto militare a Parigi prima e come «aggregato» a Seul poi, giusto in tempo per essere sbattuto fuori di nuovo, questa volta per aver appogiato la sollevazione del fratello che il primo gennaio del 2005 si ribella ancora – quattro poliziotti e due ribelli morti, e questa volta per i fratelli Humala è la fine della carriera militare.
«Concedo all’esercito un’opportunità: reintegratemi o entrerò in politica», scrive l’ex tenente colonnello. Ma l’esercito non si muove e a 43 anni Ollanta scende, come si dice, in campo. E’ una stagione in cui molti leader carismatici americani si affacciano al potere. Lucho Gutierrez in Ecuador era stato il primo, svoltando poi con decisione verso gli Stati uniti e determinando la sua cacciata a furor di popolo. Chavez in Venezuela e ora Evo Morales in Bolivia, invece, sono svolte indigeniste e anti-liberiste, e nel frattempo Lula in Brasile, Kirchner in Argentina, Tabaré Vazquez in Uruguay… Gli Stati uniti si sono persi per strada buona parte del loro «cortile di casa». Il vocabolario di Ollanta Humala vira a sinistra, sfrutta l’usura dei partiti tradizionali peruviani (un fenomeno, la sfiducia nel sistema politico, che ha prodotto Fujimori prima e Toledo poi), si appoggia alle popolazioni andine di Cuzco, Puno, Ayacucho, della valle dell’Apurimac, miete consensi nei settori popolari più castigati dal neoliberalismo. La olla, il pentolone di terraglia, dipinto con i colori bianco e rosso del partito, scala le percentuali nei sondaggi. «Se vinco cambierò tutto», assicura. Dice di volere un paese senza odio, chiede di cambiare la costituzione, promette di rivedere i contratti con le multinazionali che sfruttano il sottosuolo peruviano. Oggi i peruviani decidono se credergli.