«Quattro anni e 14,5 miliardi di dollari dopo, finalmente qualcuno si decide a staccare la spina». Con questo secco comunicato uno degli innumerevoli gruppi statunitensi di “cani da guardia” ha commentato la recente decisione del Pentagono di non rinnovare i contratti stipulati con Halliburton, la compagnia vicina al vice-presidente superfalco Dick Cheney che ha fatto man bassa dei soldi destinati alla ricostruzione irachena. La decisione non è una sorpresa: la compagnia è accusata di ogni sorta di nefandezza, dalla corruzione al disastro ambientale passando per l’appropriazione indebita dei fondi pensione e lo sfruttamento del lavoro degli immigrati illegali, ma sono stati i budget gonfiati a irritare i generali. Un braccio di ferro cominciato già alla firma dei primi contratti, quando ancora le bombe piovevano su Baghdad, e andato avanti di tribunale in tribunale fino all’ultima decisione. Hanno vinto i fautori del risparmio o semplicemente si vogliono tagliare i ponti con la compagnia prima che emergano violazioni peggiori? Difficile dirlo ma, certamente, di scheletri nell’armadio Halliburton ne ha davvero molti.
Cibo marcio per i ragazzi al fronte
Com’è noto, la compagnia di Houston è stata la maggiore beneficiaria della febbre da subappalto che ha colpito l’Us Army da quando è salita al potere la cricca di Bush. Grazie alle buone parole di Rumsfeld e del potente vice-presidente Cheney, Halliburton e affiliate gestiscono in outsourcing tutto quello che serve ai 135 mila soldati di stanza in Iraq, dalle toilettes alle sale giochi, dall’approvvigionamento di carburante alle mense, senza contare che alla corporation è stata affidata anche la costruzione degli alloggiamenti e delle prigioni, visto il successo del modello collaudato a Guantanamo. La nuova stagione delle guerre americane ha visto la compagnia accrescere i suoi profitti in modo esponenziale quadruplicando addirittura le rendite ricavate dai contratti governativi in un solo anno: dagli 84 milioni di dollari del 2004 ai 330 milioni di dollari nel 2005.
La disinvoltura con cui questi contratti sono stati assegnati, così come le clausole che aboliscono qualunque tetto alle spese extra-budget, hanno provocato parecchi malumori all’interno dell’establishment militare, che ha subito avviato delle inchieste. Secondo il Pentagon’s Defence Contract Audit Agency, la commissione di controllo delle spese dell’esercito, Halliburton deve rispondere di circa un miliardo di dollari di spese “irragionevoli” ovvero considerate eccessive. Nel corso dell’ultimo anno sei manager americani della compagnia sono stati arrestati perché pizzicati a gonfiare i conti e a intascare tangenti mentre alcuni fornitori locali, principalmente kuwaitiani, sono finiti nel mirino del Dipartimento di Giustizia per avere offerto una gradita sponda ai giochetti contabili dei dirigenti della casa madre.
Mentre il Pentagono indagava sui contratti gonfiati, i reclami provenienti dal campo raggiungevano Washington. Nell’aprile scorso, testimoniando davanti al Democratic Policy Committee del Senato, l’ufficiale medico Michelle Callahan ha richiamato l’attenzione sull’epidemia di piccole malattie infettive diffuse fra le truppe come conseguenza, secondo la dottoressa, dell’abitudine di Halliburton di reimmettere acque reflue nella scorta non-potabile destinata a docce e lavandini. Secondo un’altra testimonianza resa al Comitato da un ex-dipendente della compagnia, ben peggio è accaduto a Camp Anaconda, la più grande base militare statunitense in Iraq. Non solo è risultato che la compagnia si faceva pagare 20 mila pasti al giorno quando ne consegnava solo 10 mila ma secondo Rory Maryberry, che si occupava appunto dell’approvvigionamento alimentare, era prassi utilizzare cibi scaduti anche da un anno oppure marci perché mal refrigerati. I trasportatori della compagnia avevano esplicite istruzioni di provare a consegnarli a un’altra base, qualora fossero stati rifiutati dai responsabili di turno. Ora, se “i nostri ragazzi al fronte” vengono trattati in questo modo, chi può stupirsi che i lavoratori immigrati assunti dalla compagnia vengano nutriti direttamente con gli avanzi, come risulta da un’altra testimonianza ufficiale?
Il lavoro secondo la corporation
Quella dell’impiego di lavoratori filippini e indiani in un regime quasi schiavistico è un’altra delle accuse che vengono rivolte alla compagnia. Prima di tutto, in un paese con tassi di disoccupazione come quelli iracheni l’importazione di manodopera a basso costo ha effetti socialmente destabilizzanti, come fatto notare dalle autorità irachene, senza contare che il trattamento non è certo dei migliori. Halliburton, che ammette di impiegare almeno 35 mila dei 48 mila lavoratori stranieri presenti nel paese, per un decimo del salario minimo statunitense può contare su di un esercito di schiavi costretti a lavorare 7 giorni su 7 per 10 ore al giorno. Un ulteriore risparmio è dato dal fatto che, a differenza degli occidentali, ai lavoratori del Terzo mondo non viene garantita nessuna assistenza medica né equipaggiamento di sicurezza né, tanto meno, i giubbotti anti-proiettile che sono costretti a indossare per contratto tutti i dipendenti della compagnia in territorio iracheno. E che dire degli alloggiamenti? Secondo Sharon Reynolds, altro ex-dipendente pentito, i campi di lavoro “sembrano in tutto e per tutto dei campi di concentramento” con i lavoranti costretti a mettersi in fila sotto il sole per raccogliere una ciotola di sbobba.
Bisogna sottolineare che gli abusi sui lavoratori del Terzo mondo da parte della corporation non sono stati registrati soltanto nei teatri di guerra. La compagnia, cui sono stati affidati anche importanti contratti per la ricostruzione del dopo-Katrina, è finita nel mirino delle associazioni che si occupano di migranti proprio per il trattamento dei latini assunti per rimettere in piedi le istallazioni militari nel golfo di New Orleans. Nel novembre del 2005 il National Committee di La Raza ha visitato la tendopoli dei lavoratori ispanici impegnati a ricostruire la base di Gulfport dove ha raccolto le lamentele di molti lavoratori che aspettano da mesi il pagamento degli arretrati. Agli immigrati irregolari va anche peggio: dormono all’aperto e sono costretti a pagarsi i pasti comprandoli direttamente dalla compagnia, ovviamente a prezzi gonfiati. Gli appalti del dopo-uragano hanno fruttato alla corporation una montagna di soldi ma anche una pioggia di reclami al Dipartimento per il lavoro che ha richiamato più volte la compagnia al rispetto delle leggi sul lavoro e sull’immigrazione. Comunque, mentre assestava bacchettate con una mano, con l’altra il governo affidava a una sussidiaria Halliburton un contrattino da 385 milioni di dollari per la costruzione di un centro di detenzione temporanea per immigrati vicino al confine con il Messico. Immigrati illegali per costruire un carcere per immigrati illegali: praticamente la quadratura del cerchio…
Per quanto possa essere brutale con la forza lavoro proveniente dal sud del mondo, la compagnia non è tenera nemmeno con gli americani doc. Un’inchiesta federale ha dimostrato che si è appropriata dei profitti ricavati dal fondo pensioni dei dipendenti per pagarci i premi agli alti dirigenti, invece di suddividerli fra i legittimi proprietari delle azioni come stabilito dalla legge. Bisogna sottolineare che questa prassi, che ha fruttato alla compagnia circa 2,6 milioni di dollari in quattro anni, è stata lanciata nel 1999 quando Dick Cheney era ancora il boss. Anche in questo caso, forse, la recente decisione del Pentagono potrebbe preannunciare una stagione di nuove e succulente rivelazioni.
Istallazioni petrolifere
Bush aveva promesso che la guerra irachena si sarebbe pagata da sola, con i proventi del petrolio di cui il paese è ricco. Per quanto la resistenza irachena abbia fatto molto per rovinare questo geniale progetto bisogna dire che anche la compagnia del vice-presidente ha dato il suo contributo, cosa decisamente paradossale considerando che Halliburton è leader mondiale proprio nei servizi all’industria petrolifera. Del resto quando vengono stilati contratti da svariati miliardi di dollari che non prevedono alcuna penale nel caso i lavori non vengano portati a termine, si rende il fallimento molto conveniente anche se poi si traduce in mancati profitti per l’Iraq (circa 8 miliardi l’anno che potrebbero essere utilizzati per ricostruire scuole e ospedali) e rischia di provocare danni permanenti.
Uno dei più grandi progetti ad esempio, prevedeva la ricostruzione degli oleodotti di Al Fathah, vicino Kirkuk. Per 70 milioni di dollari Halliburton doveva riparare 16 pipeline in un territorio che gli ingegneri iracheni avevano già segnalato come instabile. Naturalmente nessuno ha dato loro ascolto. Due anni e parecchi incidenti dopo, di oleodotti ne funzionano appena 6 e gli ingegneri sono costretti a reimmettere il petrolio nei pozzi, col rischio di danneggiare la produzione futura. Anche l’impianto di trattamento delle acque di Qarmat Ali non è stato riparato a dovere, malgrado la compagnia abbia ricevuto per questo lavoro ben 225 milioni di dollari. L’impiego di materiale scadente e una serie di errori di progettazione, anche quelli probabilmente dovuti al risparmio, hanno provocato una serie di incidenti che hanno ridotto la produzione del giacimento di Rumaila di almeno un terzo, mettendo anche in pericolo la falda acquifera locale. Ma è nel sud dell’Iraq che la compagnia ha raggiunto il top dell’arroganza. Un progetto da 37 milioni di dollari destinato al miglioramento della produttività dei pozzi è stato semplicemente cancellato quando il governo statunitense si è rifiutato di garantire la compagnia contro qualsiasi azione legale futura. Che l’amico Cheney stia cominciando a scaricare un imbarazzante fardello?
Esportando la devastazione
Non solo guerre, comunque, e nemmeno soltanto carceri.
Halliburton è impegnata a portare il progresso in mezzo ai “selvaggi”, che siano i pescatori del delta del Niger o gli indigeni dell’Amazzonia. In Perù, attraverso la sua principale sussidiaria, la Kbr, la compagnia è coinvolta nel progetto Camisea, il primo terminal per la liquefazione del gas in America latina dal costo di un miliardo di dollari. Fin dall’inizio il progetto è stato contestato da tutte le associazioni ambientaliste del pianeta sia perché, prima di arrivare alla costa, la pipeline dovrebbe attraversare vaste porzioni della foresta amazzonica dichiarate parchi naturali per la ricchezza della biodiversità, sia perché il terminale dovrebbe affacciarsi proprio sulla riserva marina di Paracas, luogo dichiarato intoccabile dalla Convenzione di Ramsar. Oltre agli ambientalisti, il progetto Camisea viene fortemente osteggiato dalle comunità indigene (circa 22 etnie differenti) che vivono dei frutti della foresta e dai piccoli agricoltori che vedono minacciate le loro terre. Malgrado le assicurazioni della compagnia, nei primi 18 mesi dall’avvio dei lavori (cominciati nell’agosto del 2004) ci sono stati ben cinque incidenti con altrettanti sversamenti di petrolio. Motivo? Secondo quanto riportato da E-Tech International per risparmiare sono stati utilizzati tubi di seconda mano prelevati da altri cantieri e sono state imboccate pericolose scorciatoie attraverso terreni impervi per abbattere i costi.
Dall’altra parte del mondo, in Nigeria, Halliburton è stata riconosciuta colpevole di avere alimentato una vasta rete di tangenti per assicurare la costruzione dell’impianto di liquefazione del gas naturale di Bonny Island al consorzio di cui fanno parte molte compagnie internazionali fra cui anche l’italiana Snamprogetti. L’intenso lavoro di tangenti proseguito durante tutti gli anni Novanta (e quindi sotto la direzione Cheney) ha consentito al consorzio Tskj di assicurarsi un contratto da 2,2 miliardi di dollari quando, per un progetto simile, in Qatar sono stati spesi appena 950 milioni. Mentre le mazzette finivano nei conti esteri dei militari che allora componevano la giunta, la Tskj saliva fino a piazzarsi in pool position per la costruzione di altri cinque impianti di liquefazione del gas naturale. Inutile dire che buona parte di questi soldi, concessi come prestiti al governo nigeriano dalle banche d’investimento internazionali, finiranno per essere pagate dai cittadini dell’impoverito paese africano, gli stessi che invece dovrebbero essere beneficiati dalle royalties sui prodotti estratti dalla loro terra. Ma royalties e tasse raramente finiscono nelle casse del governo, in parte per colpa della corruzione dei funzionari e in parte perché nessuno riesce a costringere le compagnie a rendere conto di quanto estraggono.
Per dare un segnale forte di cambiamento, una volta che i giudici hanno accertato – e condannato – il vasto sistema di tangenti, il parlamento nigeriano ha istituito una commissione d’inchiesta che ha prodotto una dichiarazione formale in seguito ratificata dalla maggioranza dei deputati nella quale si raccomanda che «tutte le compagnie legate al consorzio Tskj e all’Halliburton devono essere escluse da nuovi contratti governativi». Oltre alla compagnia di Houston e alla già citata Snamprogetti sono state riconosciute colpevoli di avere partecipato al vasto sistema di corruzione del regime di Sani Abachi anche la francese Technip e la Japan Gas Corporation.