Il peccato originale del secolo breve

Non si sottolineerà mai abbastanza l’importanza della Grande guerra per definire le grandi tendenze e i momenti fondamentali del «secolo breve». E anche se la sua tragicità storica ha subito l’onta della plastificazione a sfondo mitico e patriottico per contingenti finalità politico-ideologiche (come la cooptazione mussoliniana quale glorioso evento fondativo del regime fascista, o la monumentalizzazione popolare consegnata alle associazioni combattentistiche) si è ormai fatta strada la convinzione che quella guerra abbia avuto una funzione di vera «levatrice» delle forme del ‘900 e che costituisca il peccato originale della modernità europeo-capitalistica che si prolunga fino all’oggi svelandone caratteri e strutturali ascendenze.
L’ombra lunga di quel conflitto si stende come una cupa ipoteca destinale, segno e sigillo, che dice molto di più dei pullulanti e suggestivi tecnicismi che da sempre la corredano storiograficamente e delle dimensioni di senso (culturale, sociologico, linguistico) che ne sortiscono, e che hanno prodotto una vera profluvie di descrizioni ricognitive. L’invito a studiare con attenzione e a non banalizzare quella guerra, gli antefatti, soprattutto le varie scaturigini sociali e politiche (ma anche di costume) è quello che ha cominciato a fare nel nostro paese negli anni ’60 e ’70 una nuova generazione di studiosi, rileggendo quella guerra sotto la lente della sua materialità e quale sintomo eruttivo di dinamiche socio-economiche, o dei rapporti tra classi dirigenti e subalterne. «Scoprendo» che l’abituale descrizione di quella guerrra come enigmatica esplosione contingente, o periodica quanto fatale emersione di una selvatica invariante storica, o «insensata» rottura dell’idilliaco quadro di pace della Belle Epoque (colpevolmente omissiva delle tragedie coloniali), infortunio obbligato della «caratteriale» efferatezza dei tedeschi, sospirata e corale ricomposizione del quadro nazionale in Italia – apparteneva a una rappresentazione ideologica e mutila delle molteplici complicità e correità strutturali e delle ben più corpose quanto evidenti responsabilità politiche. E che pertanto il tragico evento affondava le radici in una configurazione processuale di rapporti di forza, in una trama di problematiche relazioni interstatuali, la cui patologia qualcuno aveva già all’epoca colto come sistemica e definito imperialistica, per altro visionariamente anticipandone forme e modi della distruzione di massa (cosa, che mai capirono militari come Cadorna che, a un anno dall’avvio dello scontro, si ostinò a perseguire un’ottusa strategia di sfondamento, sulla pelle di quei fanti-contadini che portarono il peso della «inutile strage», secondo la definizione di Benedetto XV).
Le decine di milioni di vittime della prima «guerra di materiali» della contemporaneità dovevano la loro personale apocalissi esistenziale non a un hegeliano «vento refrigerante» (secondo le abborracciate teoriche del nostrano interventismo), ma a un concorso di cause, che poco avevano a che vedere con la comparsata di quel Gavrilo Prinzip, nazionalista serbo-bosniaco che si sarebbe guadagnato la fama uccidendo lo scostante e cupo erede asburgico. E che l’oleografia eroicistica, ridotta a poco più che alla narrazione informale dei nonni di quella guerra in bianco e nero poteva essere benignamente riconsegnata ai naturali detentori, quelle destre italiche che vivacchiavano all’ombra della nostalgia patriottica, quale legame organico, e mistificato, con la vicenda nazionale, ricondotta superficialmente a una tronfia epopea senza sfondo storico.
Ma con quella vogue di studi, rientrava in crisi anche la visione di una «innaturalità» e disorganicità della guerra rispetto alle magnifiche sorti di un sistema economico in progressione evolutiva, secondo gli ingenui, classici schemi della tarda età positivistica. Un’armonica e lineare composizione di momentanei squilibri sociali e distributivi, rispetto alla quale la guerra tra stati appariva residuale fattore di improduttività e «irrazionalità». Le tesi del «keynesismo militare» erano ancora lì da venire, come il connesso disastro del ’29, che non avrebbe lesinato disincanto sulle promesse di felicità del sistema.
Di questa densità «testuale» della grande guerra, Luciano Canfora è naturalmente ben consapevole, anche se le riflessioni che affida a 1914 (Sellerio, pp. 168, euro 10), destinate a una serie di trasmissioni radiofoniche intorno a quell’«anno fatale», sembrano solo voler compendiare le grandi coordinate tematiche che aprirono al «suicidio d’Europa» nell’estate del ’14, mettendo però in evidenza alcuni dei capitali nodi politici che affiorarono in quella circostanza, la cui paradigmaticità si palesò da subito alle menti più acute del tempo, non offuscate dal delirio sciovinistico dilagante anche in ambienti insospettabili. A cominciare da quello braudeliano cruciale, che aveva già colto nella guerra l’«astuzia» che consentiva alle classi dirigenti continentali di intervenire sulla crescente influenza del movimento socialista, spostando le montanti tensioni sul nemico esterno. Trovando per altro eco in quasi tutte le nazioni europee, dove le forze di sinistra (già allora irretite da retoriche che oggi chiameremmo compatibiliste) solo in qualche sporadico caso riuscirono a sottrarsi alla trappola della difesa del suolo patrio, rifluendo piuttosto nelle retoriche dell’union sacrée. E ingloriosamente finendo con lo schierare operai contro operai nella carneficina che si sarebbe poi prolungata nel capitolo hitleriano della «seconda guerra dei trent’anni», in qualche modo accreditando la tesi noltiana della «guerra civile europea» (esplosa nel ’14, tuttavia, suggerisce maliziosamente Canfora allo storico tedesco, non nel ’17, quando è proprio l’esigenza di fermare quella guerra, a provocare l’insorgenza bolscevica). Dunque, guerra come antidoto alla rivoluzione, atto di irresponsabile ma stabilizzante autodifesa delle borghesie europee, che s’impenna in iperbole distruttiva della stessa potenza economica e tecnologica dei ceti dominanti, e prefigura il cupo destino faustiano che essi consegnano al secolo come retaggio fatale di quella esperienza fondativa.
Canfora non intende sminuire le responsabilità «istituzionali» della Germania nello scoppio del conflitto. Anzi, descrive con efficacia i dispositivi di potere interni e le dinamiche politiche che sfociarono nella deriva bellicista del II Reich, provocando i «progressivi scivolamenti» che imposero alla fine il conflitto all’agenda continentale e mondiale. Ma insieme agli stati d’animo e ai diversi fattori «locali» che accompagnarono le ultime frenetiche fasi della «preparazione» dopo la lunga, comune rincorsa ottocentesca, non perde mai di vista il primum movens, lo sfondo significante che agisce come «forza che più forte dei vertici stessi del potere conduce per mano verso la catastrofe». Ed è lezione tragicamente vera anche per il nostro oggi, che assiste a una selvaggia redistribuzione verso l’alto delle ricchezze e delle risorse, con la guerra restaurata nei suoi diritti di arbitro e ruvido strumento di decisione ultima, «costituente» delle relazioni internazionali. Il soggetto è sempre quello. Per usare le parole di Jean Jaurès (assassinato da un nazionalista francese proprio il 31 luglio 1914), quel capitalismo che «porta in sé la guerra come la nube l’uragano».