Il Partito democratico e la Terza Repubblica

A tre mesi (scarsi) dalle elezioni, la nuova legislatura è già cominciata. E alimenta grandi manovre tese a realizzare in tempi brevi un profondo mutamento (uno stravolgimento) del sistema politico italiano. Di che cosa stiamo parlando?
Partiamo da un fatto di (quasi) cronaca, su cui Liberazione è giustamente molto attenta, e cioè il ripetersi di sortite tutt’altro che estemporanee da parte di Romano Prodi e dei suoi fedelissimi, volte ad accelerare il processo di costituzione («subito e ovunque») del Partito democratico. Le parole del leader dell’Unione (da ultimo, il pressing per le liste unitarie dell’Ulivo al Senato nel nome dello «spirito delle primarie») sono molto chiare e forniscono una chiave per interpretare le vere ragioni che lo indussero a puntare sulla carta delle primarie. Prodi dice al Paese che bisogna smantellare il «vecchio» sistema dei partiti. Facendo leva sulla forte domanda di unità delle forze democratiche presente nel Paese dopo cinque anni di devastante governo delle destre, traduce questa esigenza nella richiesta di dissoluzione delle organizzazioni esistenti (Ds e Margherita in primis) in vista della loro trasformazione in un nuovo soggetto politico guidato dal «capo» investito dal plebiscito del 16 ottobre. Si tratta di un progetto che in altri tempi sarebbe stato definito bonapartista. E Prodi – ne sia o meno consapevole – ci mette del suo anche sul piano della retorica politica, con un insistito riferimento all’incombere di «decisioni gravi» che il popolo gli chiederebbe finalmente di assumere.
Rispetto a questo progetto “neo-gaullista”, le culture politiche novecentesche che avevano dato vita ai grandi partiti popolari con basi di massa costituiscono ovviamente un ostacolo. E difatti contro tutte queste culture – queste identità forti, strutturate e profondamente radicate nel Paese – è da tempo in atto una dura offensiva, che si alimenta dello stesso nuovismo che quindici anni fa contribuì a minare le fondamenta della «Prima Repubblica». Ma il veleno della retorica «oltrenovecentesca» non è sparso equamente nel corpo del sistema politico. Con buona pace dei nuovisti, la lotta di classe mantiene salde posizioni nelle cucine della storia e della cronaca. Non c’è di che sorprendersi se, gratta gratta, vien fuori che il vero bersaglio è quel che resta delle culture e delle forze organizzate legate alla storia del movimento operaio e ancora vicine agli interessi delle classi lavoratrici.
Nella misura in cui il progetto prodiano implica la separazione della rappresentanza politica «democratica» dal mondo del lavoro (e la stabile subordinazione del lavoro stesso agli imperativi della «compatibilità» e della «competitività»), la costruzione del Partito democratico si configura fondamentalmente come la definitiva dissoluzione dei Ds in quanto partito post-comunista. Sono i Ds, insomma, il principale bersaglio dell’operazione.
Da parte loro, fidarsi di Prodi è (stato) un drammatico errore, come molti hanno compreso in occasione della fredda difesa offerta dal leader dell’Unione in occasione del caso Unipol.
Tutto questo appare confermato da un editoriale di Angelo Panebianco apparso sul Corriere della sera il 15 gennaio scorso, che aggiunge al quadro nuovi elementi assai utili per decifrare le aspirazioni dei potenti padrini confindustriali del progetto «democratico». Per uscire finalmente dalla transizione iniziata nei primi anni Novanta con la fine della Dc e del Pci e l’adozione del maggioritario – scrive in sostanza Panebianco – occorre recidere ogni legame con il secolo scorso. Per questo ci vuole «una nuova Bolognina» che completi l’opera della prima e porti gli eredi di quel che un tempo fu il Pci agli antipodi delle loro origini. In questo senso si tratta in primo luogo di isolare quanti «hanno il cuore e il cervello ancora volti alle vicende del secolo scorso»: quanti, cioè, continuando a pensare che compito primario della sinistra sia la rappresentanza del lavoro dipendente e la tutela dei suoi diritti, conservano saldi legami col mondo del lavoro e con le sue organizzazioni. Ma c’è anche dell’altro, come Panebianco illustra con la consueta chiarezza. Fatti fuori gli impenitenti comunisti, la creazione di un forte Partito democratico impone di sdoganare gli «anticomunisti democratici». Chi sono? Capirlo è necessario per intendere il senso strategico dell’operazione.
Tra gli anticomunisti democratici possono essere certamente collocati i socialisti post-craxiani, che dell’anticomunismo hanno sempre fatto una bandiera. In questo senso, la recente riscoperta delle virtù di Craxi come grande statista cessa di apparire una semplice manifestazione di nostalgia, e assume i tratti della campagna politica, alla quale non per caso il sen. Giuliano Amato (eminenza grigia del progetto «democratico») ha tenuto a fornire il proprio autorevole imprimatur. Ma c’è forse anche un’altra componente, e cioè la tradizione tenace, ancorché minoritaria, degli antipartito, che affonda le radici nelle culture e nelle esperienze liberal-socialiste dei primi decenni del Novecento (le posizioni di Giustizia e libertà e del Partito d’Azione, per intenderci) e che oggi annovera nelle proprie file radicali, ex-repubblicani, liberali “di sinistra”. È uno schieramento quantitativamente esiguo (come si addice peraltro ad ogni élite) ma ambizioso e assai ben introdotto negli ambienti «che contano».
A sostegno di questa ipotesi stanno diversi indizi, a cominciare dal forte appoggio fornito alla campagna prodiana dalla Repubblica (Scalfari è da sempre uno dei notabili della lobby antipartito) e dall’esplicito riferimento di Panebianco a «quei democratici che ai tempi della guerra fredda si opposero frontalmente al Partito comunista italiano in nome e per conto della democrazia liberale». E il pensiero corre ai Pacciardi, ai Maranini, ai Sogno e ai gloriosi gladiatori di Stay behind…
Ma se le cose stanno così, qual è la posta in gioco? Qual è il fine per il quale si battono i fautori del Partito democratico? In negativo, si tratta di nient’altro che della definitiva chiusura di quel «caso italiano» che fu, tra gli anni Sessanta e Settanta, il frutto della forza delle organizzazioni sindacali e politiche del movimento operaio e della diffusa pratica della partecipazione democratica. In positivo, questo progetto mira alla normalizzazione del Paese, a realizzare proprio l’idea dalemiana del «Paese normale», e ciò nonostante la sua realizzazione comporti la dissoluzione di quel che resta dell’esperienza del Pci. Si tratta di instaurare finalmente un bipartitismo in cui la dialettica politica coinvolga due forze politiche omogenee, accomunate dalle stesse culture e prospettive sui terreni cruciali della politica economica e della politica estera. Tutto si può rimproverare ai sostenitori di questo progetto, men che di essere reticenti. Non è forse costante il riferimento apologetico al sistema anglosassone e in particolare al modello statunitense? E che cosa divide, in sostanza, il Partito democratico dal Partito repubblicano negli Stati Uniti, se non sfumature alquanto marginali (un’interpretazione un po’più o un po’ meno interventista dell’imperialismo; un’applicazione un po’ più o un po’ meno intransigente del liberismo) di una strategia politica condivisa?
Si può dire, dunque, che lo scopo strategico di questa iniziativa è chiudere definitivamente la storia della Repubblica nata dalla Resistenza antifascista. Diciamo questo perché la posta in gioco coinvolge direttamente la Costituzione del 1948 in ciò che ne costituisce l’essenza: l’idea della partecipazione democratica di massa. Ciò a cui si vorrebbe dar vita è una nuova Costituzione anche formale, coerente con gli effetti prodotti dalla «rivoluzione conservatrice» reaganiana nel corpo della società italiana e nella struttura dei poteri che la governano: una nuova Costituzione neo-liberista (che avrebbe anche il vantaggio di ben armonizzarsi con il Trattato costituzionale europeo tanto caro a Prodi e ad Amato), finalmente libera dal peso dei partiti di massa, finalmente funzionale agli imperativi della «governabilità», finalmente coerente con il trionfo dei poteri forti promosso e sancito dalle privatizzazioni, finalmente in grado di legittimare logiche tecnocratiche reclamate dalle nuove oligarchie, finalmente emendata da quello scomodo articolo 11 che ostacola la partecipazione italiana alle guerre «democratiche». In sintesi (e portando, per amore di chiarezza, il ragionamento alle estreme conseguenze), si potrebbe dire che il progetto punta a restaurare lo Stato liberale dopo la rischiosa «parentesi» dello Stato democratico.
Tutto ciò sconsiglia, evidentemente, di considerare marginali o trascurabili le grandi manovre tese alla creazione del Partito democratico. Occorre prendere sul serio questo lavorio e chiedersi, senza inutili giri di parole, se esso possa o meno avere successo, e come si debba rispondere a questa offensiva di matrice oligarchica.
Naturalmente ogni previsione è rischiosa. Quel che oggi si può dire è che a rendere insidiosa l’iniziativa dei fautori del Partito democratico è il sostegno fornito loro da centri di potere molto forti. Non è un caso che – come notava Rina Gagliardi su queste pagine martedì scorso – il progetto prodiano veda alleati la Repubblica e il Corsera (oltre al Sole24Ore), tradizionalmente collocati su fronti diversi quando sono in discussione le linee politiche sul futuro del Paese. Non è difficile prevedere che la campagna di cui vediamo al momento le prime avvisaglie diventerà assordante dopo il 9 aprile, soprattutto se – come speriamo – l’Unione vincerà le elezioni. Sarà allora che emergeranno compiutamente le diverse impostazioni del progetto, le divergenze, oggi messe un po’ in sordina, tra la sua variante centrista neo-liberale (sponsorizzata dal Corriere) e la variante scalfariana, di stampo riformista.
Ma dire poteri forti non significa immaginarsi una macchina da guerra invulnerabile e invincibile. Come hanno dimostrato da ultimo le lotte delle donne, le mobilitazioni in Val di Susa e la vincente lotta dei meccanici per il contratto, questo Paese rimane complesso, articolato, ricco – con buona pace dei progettisti «democratici» – di soggettività radicate nella storia delle lotte del lavoro e nelle esperienze di mobilitazione per i diritti delle donne e per la pace. Queste soggettività esistono e hanno tuttora un ruolo di primo piano sulla scena politica del Paese, come hanno dimostrato il movimento contro la guerra e contro il neoliberismo e le grandi mobilitazioni in difesa dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Quando ci si chiede come si debba rispondere all’offensiva messa in campo dai poteri forti, la risposta è dunque chiara. Ciò che occorre è creare le condizioni perché queste soggettività – l’area sociale e politica della sinistra di alternativa – dispieghino tutte le proprie potenzialità, convergendo su alcune forti istanze programmatiche contrastanti il progetto politico sotteso al Partito democratico (centralità del lavoro, primato del pubblico, democrazia partecipativa, intransigente rifiuto della guerra) e ponendo con ciò le premesse per un’azione unitaria, nel Paese e nelle istituzioni, in difesa dei principi e dei valori della Costituzione antifascista.
È – questo dell’unità politico-programmatica della sinistra di alternativa – un punto sul quale battiamo da tempo, ma che oggi è più che mai cruciale, a fronte degli arretramenti dell’Unione sul terreno programmatico. Arretramenti assai gravi su questioni decisive (le privatizzazioni, i centri di permanenza temporanea, le leggi berlusconiane e soprattutto la flessibilità e la permanenza di truppe italiane sui fronti di guerra) che – lo diciamo senza mezzi termini – rendono improponibile, a meno di radicali cambiamenti del programma oggi non prevedibili, la partecipazione di Rifondazione comunista a un eventuale futuro governo dell’Unione.