«Il Partito democratico agli antipodi della Cgil»

Socialista? «Lombardiano, prego. E’ una precisazione a cui tengo molto». Franco Chiriaco è il segretario generale della Flai-Cgil, il sindacato che organizza i lavoratori dell’agricoltura e dell’industria di trasformazione alimentare. Il tema all’ordine del giorno, anche nella più importante confederazione sindacale italiana e nelle sue categorie, è la nascita annunciata del Partito democratico. Anche a Chiriaco, come al segretario della Fiom Gianni Rinaldini che il manifesto ha intervistato ieri, il progetto del nuovo partito proprio non vva giù. E lo dice senza mezze parole, escludendo categoricamente che la Cgil possa essere una struttura di servizio del Pd.

Cos’è che non ti convince di questo progetto, presentato come un passo determinante per la semplificazione del quadro politico e per il superamento delle barriere storiche che per oltre sessant’anni hanno tenuto separate e contrapposte le «forze democratiche»?
Così come nasce e come viene rappresentato, il Partito democratico è vecchio, nel senso che recupera in ritardo le scelte sbagliate già fatte in alcuni paesi. Penso in particolare alla Gran Bretagna di Blair.

Quali sono le scelte sbagliate a cui ti riferisci?
Detto papale papale, la priorità del capitale sul lavoro. Sul manifesto del Pd il lavoratore è sostituito dall’utente consumatore: sembra di leggere una direttiva europea sul libero scambio. Per come si presenta, il «nuovo» partito nasce in antitesi rispetto agli obiettivi e alle battaglie che il movimento operaio e la Cgil portano avanti. Si profila l’adesione a un modello sociale che come Cgil non ci appartiene.

Pensi che la nascita del Partito democratico possa avere ripercussioni pesanti nella Cgil?
E’ difficile immaginare che, al di là delle legittime adesioni individuali, una grande organizzazione come la Cgil possa essere trasferita armi e bagagli nel Pd. E’ difficile immaginare Epifani nelle vesti di Caronte, impegnato a traghettare il sindacato che dirige nella nascitura forza politica. E’ difficile per la persona che Epifani è, ma anche perché rappresenta la Cgil. Tanto più che, se fai il conto delle tessere, scopri che l’insieme degli iscritti dei Ds e della Margherita non va oltre il 15% degli iscritti alla Cgil. E’ altamente improbabile che un pesce piccolo possa mangiare un pesce molto più grosso. Partiamo dal fatto che, stando ai risultati di una nostra indagine, la quota di iscritti alla Cgil con in tasca una tessera di partito – di qualsiasi partito – è del 9%. La percentuale cresce nei gruppi dirigenti mentre diminuisce tra i delegati. Io ho l’impressione che, come me, la maggioranza dei nostri militanti non sia interessata al Partito democratico per i suoi contenuti indistinti: è solo una convergenza elettorale per fare massa critica. Ma soprattutto, noi della Cgil pensiamo che il lavoro venga prima del capitale.

In conclusione, il Partito democratico non ti avrà…
Come iscritto ai Ds noto una distanza siderale tra la rappresentazione degli interessi dei lavoratori e la scelta politica del Pd. Per quanto mi concerne, non è neppure necessario dire «esco», dato che è il partito a sciogliersi. Ne abbiamo discusso anche nel direttivo: se i Ds navigano verso il centro per coabitare con chi guarda con più attenzione alla Chiesa che alla laicità, al capitale invece che al lavoro, alla persona invece che ai soggetti, non possono che allontanare il sogno di chi lavora e vuole un grande partito della sinistra.

Hanno ragione Mussi e Salvi?
Condivido la battaglia che stanno conducendo. Poi, non so se e come le forze di sinistra potranno aggregarsi, in assenza di una forte leadership – se c’è io non la vedo. E’ giusto che se ne parli e si lavori in questa direzione, purché si comprenda la realtà in cui ci muoviamo, i processi in atto. Io ho in mente una forma di aggregazione di interessi più che un partito, capace a sua volta di aggregare movimenti e forze laiche, mettendo al centro le questioni del lavoro.

L’approdo del Partito democratico è la conclusione di un lungo processo di revisione o rappresenta una rottura con il passato della sinistra?
Una rottura, proprio in quanto si ritiene superato il conflitto capitale-lavoro. Perché non si chiedono chi rappresenterebbe i diritti dei lavoratori? Poi è anche vero che questa rottura avviene a conclusione di un processo iniziato lontano nel tempo, forse alla Bolognina, con progressivi affinamenti e modifiche. Al congresso del Pds ricordo D’Alema che, rivolto a Cofferati, disse: «Non si vive di solo contratto nazionale». Non voglio fare di tutta l’erba un fascio, anche in questo governo ci sono persone con cui lavoriamo bene, per esempio con il ministro Damiano sulla lotta al lavoro nero e allo schiavismo.

Tu difendi il valore del conflitto capitale-lavoro in una stagione in cui la parola d’ordine è diventata la concertazione.
La concertazione è la mediazione del conflitto e non esiste senza la contrattazione. Quel che si vuole colpire è la contrattazione – il contratto nazionale, per esser chiari. In questo modo si emargina il sindacato, si colpisce la natura del sindacato confederale. Non sono certo io a sottovalutare il ruolo della contrattazione aziendale, ma è bene sapere che essa riguarda appena il 25% delle aziende. Senza contratto nazionale il lavoro finirebbe alla mercé del padrone.

Dunque anche per chi dirige un’organizzazione sindacale è importante il processo di trasformazione degli assetti politici. Come ti muoverai?
Insieme ad altri non aderirò al Partito democratico. Sto valutando, mi guardo intorno. Qualcosa finalmente si sta muovendo a sinistra e mi auguro che porti a uno sbocco positivo. Non mi interessa quel che già esiste a sinistra, di conseguenza non aderirò ad alcuna formazione esistente perché sono convinto che si possa e si debba puntare più in alto.