Il paradosso dell’antipolitica di sinistra

Quando il manifesto (allora partito politico in formazione) decise di presentarsi alle elezioni politiche del 1972, scoppiai in un pianto dirotto: mi pareva che tutto, la politica, la rivoluzione, fossero ormai finiti. Immaginavo una pattuglia di dieci, quindici deputati pronti a svendere tutti i miei ideali per un pugno di banali mediazioni. Avevo l’attenuante di avere meno di venticinque anni, di essere reduce fresca del ’68, e di ritenere in conseguenza che le istituzioni fossero una cosa di “lor Signori”, per loro natura un po’ sporche, lontane e molto corrompenti. Alla fine, come è noto, in quelle elezioni il manifesto non ottenne il quorum – e la “purezza” così preservata, con quei miseri 223.789 voti presi e nessun seggio, fu un brusco risveglio. Capii allora, credo, che la questione del rapporto tra politica e società era tanto più complessa delle mie lacrime infantili e che ogni assolutismo “di principio” risultava comunque fuorviante. “L’apparir del vero” di leopardiana memoria non era l’avvio del cretinismo parlamentare, ma, crudamente, l’assenza di consenso.
Questo brandello (un po’) autobiografico mi è tornato alla memoria nel fuoco del dibattito di queste settimane. Trentacinque anni dopo, è vero, tutto è diverso, quasi come in un altro paese e in un altro pianeta. Eppure, un filo sotterraneo c’è, a legare i giovani astensionisti degli anni ’70 a quei pezzi di sinistra radicale e di movimento che invocano oggi un gesto di rottura. Che identificano la salvezza (possibile, nient’affatto certa) in una sequenza di “No” da pronunciare in parlamento – oggi Afghanistan, domani chissà. E che concentrano la loro critica, la loro delusione, la loro polemica, sempre più veemente e organica, addosso ai partiti della sinistra radicale, segnatamente addosso a Rifondazione comunista. Ma non sono soltanto i contenuti e le singole scelte che pesano, assunte ciascuna come un Simbolo o una bandiera da sventolare – c’è qualcosa di più profondo, che investe l’idea stessa di politica. La politica tout court. La legittimità e l’utilità del “far politica”. Ieri, me lo ricordo bene, era soprattutto un umore extraistituzionale. Oggi, esso assume il volto dell’antipolitica. Un’antipolitica di sinistra, naturalmente, se questo ossimoro davvero si dà in natura.

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L’ultimo articolo di Marco Revelli (il manifesto del 6 marzo) sintetizza questi umori e queste tentazioni in termini quasi esemplari. Conosco (e stimo) da molti anni questo intellettuale rigoroso, coerente, capace di mettersi personalmente in gioco e, oltre ad altri meriti, immune dalle pratiche presenzialistico-mediatiche così care a molti “dissenzienti”. Mi pare però che nella sua ricerca, da tempo, stiano prevalendo pulsioni apocalittiche, oltre che un cupo pessimismo sulla possibilità, come si diceva una volta, di “cambiare il mondo”. L’antipolitica, perciò, diventa per Revelli l’approdo naturale del bilancio catastrofico di “Oltre il Novecento”, dove si dichiarava chiusa (e conclusa, dopo le tragedie del socialismo reale) la pensabilità stessa dell’anticapitalismo, di una lotta di trasformazione capace di proporsi il superamento del modo di produzione capitalistico. Oggi, la riflessione di Revelli muove da un bilancio radicalmente critico sia dell’operato del governo Prodi sia, conseguentemente, del “non operato” (o del cedimento) del Prc. La conclusione è che, perfino al di là delle contingenti vicende di governo, la vera novità di questa fase è che si è chiusa ogni possibilità di comunicazione tra sfera della politica e movimenti: esse sono ormai abissalmente distanti per natura ed orizzonti. L’ultima eredità del ‘900, la rappresentanza, si è insomma consumata.
E dunque? Dunque, non resta che la strada della estraneità, della autonomia del sociale – dell’esodo.

Revelli non si sofferma, più di tanto, sulle conseguenze da trarre da questa analisi (scrive, anzi premette di aver tirato anche lui un “sospiro di sollievo” di fronte alla ricomposizione della crisi) ma esse sono implicite: se la politica, qualsiasi politica in quanto tale, è fatta di mediazioni e compromessi, e se i movimenti sono portatori di valori “non negoziabili” e di obiettivi non mediabili – tutti e sempre “senza se e senza ma” – è evidente che tra le due dimensioni è calata una Grande Muraglia. Sulla Pace – per esempio – non si danno percorsi, possibilità di avanzamento, soluzioni parziali: o si dà, o non si dà. Ora, questa impostazione può apparire “radicale”, o “rivoluzionaria” o “antiriformista”: a me pare, piuttosto un’impostazione di tipo religioso. Un assolutismo forse laico nei suoi contenuti, ma non poi così diverso, nell’ispirazione, da quello che muove i teodem o i cattolici ruiniani – anch’essi, del resto, parlano della Famiglia e della Vita come valori “indisponibili”, non consegnabili alla politica. Un intransigentismo che non solo rischia l’indifferenza ai risultati, ai mutamenti, agli spostamenti di potere (un “lusso” che le larghe masse non si possono consentire), ma che mette in causa l’idea stessa di aggregazione e di efficacia dell’azione, anche nei movimenti. Alla fine, chi è il soggetto portatore di “valori non negoziabili” se non il singolo individuo? E come si può ragionare della soggettività dei movimenti o di analoghi soggetti della società civile espungendo da essi (come fa Revelli) la mediazione interna, le norme di funzionamento, i rapporti, la rappresentanza? Non è vero che soltanto la politica, o i partiti, o i grandi apparati sindacali, vivono di mediazioni: ogni azione collettiva, se tale vuole essere e come tale vuole operare, non può che trascendere gli assolutismi, gli individui, gli assolutismi individuali. Questo mi pare sia successo, precisamente, nella fase alta del movimento no global e dei forum mondiali – che non per caso, fino a Firenze, hanno dedicato ai temi della democrazia interna, della rappresentanza e delle “procedure” lunghissime ore di discussione e di confronto. Questo, purtroppo, non succede in questa fase, caratterizzata dalla frammentazione e dalla disunione: per cui quasi chiunque è legittimato ad alzarsi e parlare “nel nome” del movimento. Legittimato da chi? Dalla propria fede personale, dall’autorità di un condottiero o di un capo, dalla “rappresentazione” arbitraria di quella che si ritiene essere la “volontà generale” di un territorio o di una generazione o di un’area culturale? Curioso che un intellettuale sensibile come Marco Revelli non si accorga che oggi, proprio nel rapporto tra politica e movimenti si pongano questioni un po’ più complesse della “storica frattura” che egli denuncia.

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Anche la questione dei partiti si colloca nello stesso ambito tematico: che è poi, in senso ampio, la crisi della democrazia. Per Revelli i partiti sono luoghi morti, apparati burocratici (a cominciare dal Prc) dediti allo sport dell’“epurazione”, “divinità esigenti” e affamate di sacrifici umani. Che strana descrizione per entità che sono, invece, sostanzialmente deboli (altro che moloc), mentre l’individualismo (quello che trentacinque anni fa avrei definito come l’“individualismo borghese”) è in pieno trionfo, grazie anche alla spettacolarizzazione mediatica: una singola persona, purché collocata nel contesto giusto (istituzionale) e dotata delle relazioni giuste, “vale” , decide, determina molto di più del lavoro gratuito, della fatica e del dono offerti da migliaia di altre persone, che hanno il solo torto di essere “consenzienti”. Strano che questa assimmetria di potere, e dell’uso del potere, sfugga alla sensibilità democratica di Marco, che so essere molto alta. Curiosa la sua definizione di “mandato elettorale”, proprio come se non sapesse che di “mandato di coalizione”, per governare dentro un’alleanza zeppa di centristi e moderati, si trattava, dato lo (sciagurato) sistema bipolare e maggioritario vigente. Ma, per tornare al problema dei “dissenzienti” e della “coscienza” (altro concetto, se assolutizzato, più religioso che laico), eviterei di scomodare grandi principi e grandi teorie politiche. Per capire che cosa è successo, è la pratica musicale ad offrirci un’indicazione preziosa: prendiamo un coro, formato da cantori liberamente associati, che deve esibirsi in uno spettacolo importante. Esso discute a lungo che cosa cantare e, alla fine, non senza contestazioni interne, sceglie il coro del Nabucco verdiano, il classico “Va Pensiero”. Ecco, se durante l’esibizione, uno o due membri del coro si mettono ad intonare un’altra cosa – un bellissimo blues, tipo “The House of rising Sun” – il coro verdiano non riesce ad andare avanti. Non è solo cacofonia, è proprio che il coro si blocca. Ne consegue che il cantore di blues viene invitato ad andare a cantare altrove, viene, in sintesi, “allontanato”. Non è piacevole, per nessuno, anzi, è doloroso – quel coro aveva un’armonia d’insieme, un equilibrio di voci, un’agogia che adesso non ci sono più. Ma il diritto di quel coro a cantare il “Va Pensiero” valeva qualcosa o no?

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Naturalmente, la crisi della politica c’è – e come. Così come è evidente la crisi della rappresentanza – che il maggioritario contribuisce per altro ad acuire ma che non nasce dai sistemi elettorali, ma dalla fine dei partiti di massa, dalla disgregazione sociale, dalle tendenze a-democratiche e autoritarie dell’establishment, dal dominio della televisione, e da mille altri fattori che qui non possiamo analizzare. In questo senso, la rifondazione – radicale – della politica è uno dei compiti ineludibili di questa fase storica, e anche una delle ragioni principali che giustificano la presenza in una coalizione di governo della sinistra radicale. Invece l’antipolitica – la fuga dalla politica – mi pare assecondare, sia pure da sinistra, quel processo di “americanizzazione” della nostra società (del rapporto tra politica e società) già ampiamente in atto, che alle classi dirigenti viene in insperato soccorso: una sfera istituzionale del tutto separata non dalla società, ma dalle classi subalterne, nella quale la sinistra non può avere rappresentanza alcuna; una società dove miriadi di movimenti, o di associazioni, o di aggregazioni temporanee, sono capaci di promuovere conflitti, che la politica non la incontreranno mai. Una politica che consta di un solo partito, sia pure diviso in due formazioni storiche, e che, come tutti i poteri che contano, è gestita in proprio dai poteri forti – anzi, dai ricchi. Non è sempre stata questa, del resto, l’aspirazione recondita del capitalismo? Tutto ciò che a noi oggi può apparire scontato – come il suffragio universale, la democrazia rappresentativa, lo Stato sociale, la scuola pubblica – è il frutto di lotte epocali, non è mai stato gentilmente “concesso”, octroyee. La politica, il “far politica” non serve, più di tanto, alle classi dirigenti, che anzi la vivono come un impiccio, un ingombro, una concessione forzata alla modernità. I modelli ideali di Montezemolo e del cardinal Ruini (o del suo fresco successore) non prevedono la politica o la partecipazione politica, ma le obbedienze che la società dovrebbe riservare alla logica dell’azienda o ai dettami della Chiesa cattolica. Gli omosessuali di regime, come Franco Zeffirelli, non hanno bisogno dei Pacs o dei Dico. Alla fin fine, può darsi, sì, che la politica abbia toccato limiti così profondi da risultare “non riformabile” e che l’Apocalisse revelliana ne esca confermata. Vorrei sommessamente sapere chi, in questo caso, potrà dire di aver vinto.