Il papiro di Dongo

Nella sua collana «L’oceano delle storie» Adelphi colloca l’oceanico libro di Luciano Canfora Il papiro di Dongo (pp. XXIII-812, euro 32,00), la cui trasversalità però sembra sfuggire a ogni restrizione collocatoria, sia pure evocante un infinito proliferare di epici avvenimenti nel tempo e nello spazio. De quo agitur? Si domanda preoccupato il lettore per la mole del volume, al di là delle informazioni del risvolto. Ebbene, vorrei innanzitutto rassicurarlo. A metà strada tra biografia, saggio di «nouvelle histoire», indagine etico-autoptica e faction (e cioè secondo Norman Mailer storia come romanzo), il testo di Canfora è di appassionante lettura, come un thriller per gli amanti del genere o come un romanzo d’avventura, con i suoi intrighi, le infamità e meschinerie, ma anche eroi e eroine, e una folla di comprimari, per lo più turpi. Ambientato nel mondo accademico delle facoltà di lettere classiche di Firenze e di Bologna, con trasferte nell’Egitto archeologico di El-Bahnasa (già Ossirinco), negli anni del fascismo trionfante e poi della guerra civile, il libro racconta intrecciandole le vicende di tre studiosi, la papirologa Medea Norsa, il grecista Goffredo Coppola e il suo allievo Alberto Graziani. Centro motore della storia è la scoperta e decifrazione di un papiro greco di straordinaria importanza, poi la sua scomparsa o surrettizia appropriazione e infine il fortuito ritrovamento. Intorno ai tre protagonisti ruotano figure di rilievo del mondo universitario di allora, di alcuni dei quali, nei miei anni universitari fiorentini, sentivo rammemorare fatti e misfatti da allievi e sodali; altri poi ho conosciuto e frequentato (Longhi, Devoto, l’affettuoso Pieraccioni), a rendere per me più avvincente la già intrigante faccenda. Vera protagonista e eroina dei fatti è Medea Norsa, su cui Canfora spende molte parole di compatimento e di ammirazione. Allieva del grande Girolamo Vitelli, sua «impareggiabile adiutrice», in realtà negli ultimi anni del maestro, lo sostituì in tutto e per tutto. Eppure dal mondo accademico dei furbi, tra cui lo scorretto Achille Vogliano e l’ambiguo Giorgio Pasquali, fu trattata sempre in quanto donna come una Helferin, e cioè assistente, pur essendo più competente di tutti loro.
In quanto ebrea, poi, se non perseguita, venne respinta ai margini, tenuta sempre sul chi vive, costretta a mendicare uno stipendio, derubata dei meriti, perfino dopo la guerra e l’avvento della repubblica. A compensarla, almeno in parte, dell’ostracismo dei colleghi italiani, ebbe il pieno riconoscimento di papirologi e grecisti stranieri, come Harold Idris Bell e Claire Prèaux. Al suo funerale, così riferisce Pieraccioni, poche decine di persone, nessun comunicato ufficiale, nessun necrologio. Il ritratto che Canfora ne fa e i capitoli che le dedica per raccontare le sue scoperte e le sue battaglie, valgono come riabilitazione post mortem, per l’attestato documentario e l’emotiva partecipazione. Alle traversie della Norsa lo studioso intreccia, con accorta abilità narrativa, in contrapposizione speculare, quelle dell’altro protagonista, Goffredo Coppola, studioso di grande valore, ma anche politico facinoroso e fazioso, fascista e razzista fino al fanatismo, fino a essere fucilato a Dongo, con Mussolini, la Petacci, Pavolini e gli altri. Temuto, circuito e adulato in vita, i più dei colleghi si dimenticarono di averlo conosciuto e frequentato; e sottolinea ironicamente Canfora che «l’amnesia non è sempre una patologia». Infatti la damnatio postuma colpì totalmente la sua intensa attività pubblicistica, che non consisteva soltanto di farneticanti interventi bellici e razzisti, ma anche di dotti elzeviri che aprivano a un largo pubblico spiragli di cultura classica, si dilungavano su complesse operazioni filologiche. Come, ad esempio, l’articolo sulle Elleniche di Ossirinco (il papiro del titolo), in cui Coppola spiegava l’importanza dei frammenti e rendeva nota l’imminente uscita dell’edizione critica affidata al giovane allievo Graziani. Che poi tale edizione, giunta alla fase delle bozze, non sia mai stata editata, Canfora lo interpreta come l’intento di Coppola di tenersi il papiro avuto in prestito dalla Norsa e che, secondo i patti, una volta decifrato e studiato, si sarebbe dovuto restituire all’Egitto. Il suddetto papiro infatti, attribuito prima a Cratippo e, infine, a Teopompo, scomparso, venne ritrovato fortunosamente da Vittorio Bartoletti, nella primavera del 1948, dentro un libro della Biblioteca di Lettere di Bologna in uno scaffale situato in ultima fila, tra le carte e i materiali di Coppola, da lui sommariamente depositati e messi in salvo. Al personaggio così detestabile e che marginalmente già compariva in un precedente bellissimo libro di Canfora, La sentenza (Sellerio, 1985). Nel saggio si rendono tutti gli onori dovuti in quanto grecista e latinista, autore di saggi importanti (tra cui Epicuro, Garzanti, 1940). La condanna riguarda le sue aberranti idee politiche, anche semi sembra di capire che l’uomo e la sua coerenza siano di gran lunga preferite al nicodemismo e all’opportunismo sin verguenza dei colleghi universitari dello studioso repubblichino.
Nella prefazione l’autore asserisce che, nel ceto intellettuale, vi furono due modi di essere fascisti, il rivoluzionarismo razzista, incarnato da Coppola, e il conformismo cinico, il cui maggior rappresentante, ma con largo seguito, è lo sgradevole voltagabbana Achille Vogliano, sempre pronto a vestirsi scrive la Norsa «del colore che è più opportuno».
Ma c’è un terzo modo, continua Canfora, ed è quello delle generazioni che nacquero o si formarono col fascismo, adulate dai littoriali e circuite dal potere (e a tal riguardo consiglio la lettura illuminante di un altro saggio appena uscito, quello di Mirella Serri, I redenti, edito dal Corbaccio). Questo terzo aspetto lo studioso lo personifica nella figura di Alberto Graziani, ben noto agli storici d’arte per i suoi scritti e per essere stato l’allievo amatissimo di Longhi. Ma prima di essere sedotto dall’arte, Graziani lo fu dalla lingua e letteratura greca, e divenne lo scolaro prediletto di Coppola, verso cui nutrì sempre riconoscenza e ammirazione. Le doti intellettuali del giovane ventenne erano tali da indurre Coppola ad affidargli l’edizione degli Hellenica Oxyrhynchia, che il grecista si era impegnato a consegnare entro il 1935. Poi venne, per Graziani nel 1938 la tesi di laurea su Bartolomeo Cesi, pub blicata, e altri lavori, prima che la morte, nell’ospedale militare di San Gallo, nell’aprile del 1943, improvvisa e per cause ancor og- gi sconosciute, non chiudesse un onorato futuro all’ex-papirologo e poi «dilettissimo allievo» di Longhi. Restano ora i suoi scritti, raccolti a cura della Lina Graziani Longhi (I volume, Nuova Alfa, 1993) a testimoniare il valore dello studioso. Senz’altro Graziani fu gufista e fascista del terzo tipo suddetto,ma dall’esperienza della guerra «ha ricavato una cupa sensazione di panico», come evince dalle lettere Canfora, che ne legge il progressivo affiorare di una disperata consapevolezza, nel distacco e avversione per i vacui eroismi, superomismi e risonanti proclami del regime.
Come ho già detto, un testo fiume, questo di Canfora, che si dirama in rami diversi, ora dissertazione di antichistica, ora biografia storica, ora saggio di analisi socio-politica; avvincente però sempre, come un giallo, come una saga, per l’abilità del procedimento e il dosaggio narrativo, per la chiarezza con cui svolge una materia di per sè ostica anche per chi abbia frequentato lettere classiche, per la passione etica che si avverte nel giudizio e nella condanna di quell’universo di sapienti così moralmente inadeguato. Ha ragione lo studioso ad affermare con amarezza che «forse è proprio nel mondo universitario che il fascismo ha dato il meglio di sè». E chi avanti negli anni, da giovane, ha studiato sulle pagine di quei dotti, grecisti e non (Pasquali, Perrotta, Devoto, Romagnoli, Cecchi e tanti altri) non cessa di stupirsi per i loro meschini risvolti. Davvero cultura e erudizione non bastano a salvaguardare le coscienze.